Il nuovo giorno (aprite quella porta)
Spalancai un occhio. Il destro, presumo, che il sinistro da solo non mi riesce tuttora. Voci televisive deboli e confuse giungevano dalla cucina. Pressoché nulla dalla strada. Mi misi in posizione supina e spalancai anche l’altro occhio. Lame di luce filtravano dalle tapparelle. Doveva esserci il sole, là fuori. Mi accarezzai la pianta di un piede con il collo dell’altro. Prima destro su sinistro, poi viceversa. Sbadigliai. Abbassai le coperte fino all’altezza dello stomaco, poi ci ripensai e afferrai il lenzuolo con le labbra. Cercai voci e rumori di casa tra il gracchiare catodico. Niente. Eppure qualcuno ci doveva essere. Uno? Due? Tutti? La sveglia diceva undici due punti zero due del nuovo giorno. Non mi ero mai spinto così in là. Non credevo nemmeno si potesse. Perché nessuno ancora aveva aperto quella porta? Quindi davvero era cambiato tutto? Inspirai una grande quantità d’aria, quindi espirai. Ma non uscì tutta quella che avevo inspirato. Qualcosa era rimasto dentro. Lo sentivo sullo sterno. Premeva. Si allargava.
Diceva un non particolarmente famoso cronachista del tempo della rivoluzione russa che il mattino seguente la presa del potere da parte dei bolscevichi (e quindi in parole povere l’inizio di quella che prenderà il nome di Unione Sovietica) il cittadino di Pietroburgo si svegliò ignaro di quanto era successo la notte precedente. Le cose non apparivano diverse dal giorno prima, i giornali erano usciti comunque e riportavano le notizie che sarebbero dovute essere, con i padroni del giorno prima che a caratteri cubitali si lamentavano delle malefatte di coloro che erano diventati padroni quella notte stessa. Con un ultimo, disperato, colpo di coda il mondo antico si faceva beffe del nuovo, delle cesure della storia, del sol dell’avvenir. Eppure il cittadino di Pietroburgo, giunto in prossimità del palazzo d’Inverno appena espugnato, deve aver avvertito che qualcosa, nel cuore della madre Russia, era cambiato per sempre. O forse no, forse ha solamente respirato forte e l’aria fredda del Baltico una volta entrata è anche uscita. Sì, ma solo in parte.
Qualcosa spezzò la continuità della linea di luce sotto la porta della camera. Un’ombra. Lì dietro, fermo, c’era qualcuno. Eccola la sveglia, quindi. E invece l’ombra si spostò silenziosa sulla sinistra. Attese ancora un attimo e scomparve silenziosa come era apparsa. Ancora niente. Va bene il primo dell’anno, va bene essere andato a letto un po’ più tardi del solito, ma che novità era mai quella? Mi sedetti sul letto. Il led rosso del televisore. Qualche forma conosciuta iniziò a rivelarsi nel buio della stanza: la scrivania, la sedia, il Nintendo. Inutile fare bei respiri lunghi, quel senso opprimente allo sterno sarebbe aumentato. Ma che era poi? Per un attimo pensai di sdraiarmi nuovamente. No, questo sarebbe stato davvero troppo. Il giorno nuovo. L’anno nuovo. Però, suvvia, sdraiarsi nuovamente no.
Un famoso storico italiano parlò della fine dell’impero Romano come di una “caduta senza rumore”. Nel senso che un mastodonte di oltre mille anni si era schiantato a terra un giorno di settembre del 476 senza che nessuno, in pratica, se ne fosse accorto. Malato, certo, ma pur sempre Impero. E tuttavia nessuno aveva gridato allo scandalo per quel gesto di Odoacre, che spedendo le insegne imperiali a Costantinopoli sancì quello che ormai sapevano tutti: di gagliardetti e porpore, a Roma come a Ravenna, non c’era più bisogno. Ma vedendo arrivare nel Bosforo quelle insegne gloriose, io credo qualcuno deve aver sentito una grande stretta al petto. Perché cambiare occorre, ma che sofferenza. Perché di imperatori anche basta, però con calma. Ancora uno si può?
Aprii la porta della stanza delicatamente. Andai in bagno e urinai facendo attenzione a mirare il bianco per evitare eccessivi rumori. Il pene, comunque, era pressoché lo stesso del giorno prima. Dell’anno prima, anzi. Mi guardai allo specchio. Ma, forse, chissà. Ma no, dai, sempre quello. Mi piazzai al centro della casa. La sala vuota. La porta della cucina chiusa. Le luci della televisione dal vetro di essa. Ora la voce del conduttore si distingueva meglio. Un’ombra umana, finalmente. Respirai, ma sempre quell’ostruzione a livello del petto. Ecco il nome che nel letto non mi veniva alla mente: angoscia. Se ne era parlato a scuola prima delle vacanze. Ci aveva incuriosito tutti quella parola. Pensierino: quando mi sento angosciato? Non lo so, maestra. Ci penso. Aprii la porta ed entrai. Senza dire buongiorno. Buon anno. Senza dire nulla. Per la prima di tante volte. Un giorno nuovo. Però non so se me ne sono accorto. Diciamo che ho percepito.
In verità maestra non lo so cosa mi angoscia. Mi verrebbe da dire che cambiare mi angoscia. Così faccio finta di non accorgermi che le cose cambiano e io con loro. Mi sveglio a Pietroburgo, a Roma, a Ravenna, a Costantinopoli. Forse non capisco, forse tiro su le lenzuola e aspetto che qualcuno apra la porta. Che oramai non succede più e allora tocca a me. Ma quanto tempo è passato nel frattempo. Troppo, forse.
A volte tra un giorno e l’altro cambia un numero. A volte un mese. A volte un anno. A volte un secolo. A volte un millennio. A volte tutto.
Che angoscia aprire quella porta, maestra.