Origami di carta
Perché le luci nelle case degli altri ci affascinano così tanto? Questo bisogno di guardare verso l’alto per rubare scene di vita, attimi ordinari a cui ritornerò con la mente, me lo porto dietro da bambina.
Ci pensavo mentre aspettavo la cena, seduta in un ristorante con decorazioni di legno e porcellane, degli eleganti dischi di quercia attaccati al muro. Al tavolo accanto un ragazzo alto aspetta il suo ordine, da solo. Sorseggia il suo vino rosso e scrive appunti sui margini delle pagine del suo “L’étranger” di Camus. Sembra soddisfatto, appagato, si gode la sua compagnia come fosse quella di un amico. Annuisce quando gli portano il dolce, la forchettina ancora a mezz’aria, la glassa che deve essersi sciolta in bocca. Mi chiedo se viaggi da solo, perché si è portato un libro a cena, se è stanco delle persone. Ammiro la sua compostezza, il modo in cui riempie il suo corpo, tiene in grembo le mani. Ha un alone di dignità che lo accompagna, solido e invisibile come i valori immutabili che non cercano approvazione.
Dietro di lui, un tavolo per tre. C’è un uomo che non si è tolto il soprabito, beve e gesticola. Lo sento mentre dice “I call all the shots” – prendo tutte le decisioni – alle due donne accanto a lui. Una sfoglia il menu, anelli d’oro alle dita, la tendenza a chiedere spesso al cameriere cosa sia questo o quello. L’altra continua a fare domande, il calice di vino interposto tra lei e l’uomo, un talismano che fende l’aria pastosa e scivolosa, qualcosa da stringere quando la conversazione si arena.
Tre tavoli, tre storie, tre finestre accese da cui ho spiato. L’universale nel singolo e il singolo nell’universale, il motore della letteratura, del cinema, dei principi dell’amore
“I was upset”- ero turbato – continua l’uomo parlando di qualcosa che era successo al lavoro. Tutti questi “io” riempiono il tavolo, gli interstizi fra i loro respiri, quelle pause calibrate che diventano facilmente poco equilibrate. Non posso fare a meno di domandarmi se la sua necessità di essere il soggetto di ogni frase venga da qualche mancanza più profonda, qualche ferita ricucita alla buona che di tanto in tanto sanguina ancora. Chissà, forse il suo ego fragile ha bisogno di due specchi – due donne – per vedersi come avrebbe voluto. O forse non c’è nessun enigma, nessun dramma, sono i filtri dei miei occhi che inventano. Forse.
Questo affresco in movimento continua a tingersi di pennellate nuove e non riesco a staccare gli occhi dalla coppia in fondo alla sala. Lui ride e annuisce, leggermente in ritardo, alle battute di lei. Lei indica, sorride, le sue parole non fanno in tempo a sedimentarsi sul fondo che ne arrivano già altre, nuove. Conosco quella sensazione, la paura dei silenzi imbarazzanti, il momento della verità in cui si misura quanto una coppia riesca a sentirsi a proprio agio senza niente da dirsi.
Tre tavoli, tre storie, tre finestre accese da cui ho spiato. L’universale nel singolo e il singolo nell’universale, il motore della letteratura, del cinema, dei principi dell’amore. Tutto davanti a me, perfettamente piegato come un fragile origami di carta. E proprio su carta imprimo le loro storie inventate.