Il paese delle donne cannibali
Un mega incidente ci aveva costretti ad uscire dalla A1 e imboccare una serie di strade statali e provinciali del centro Italia. Procedevamo a intuito cercando di non perdere troppo tempo a causa di questa deviazione forzata. Guido mi indicava il percorso più adatto, ma avevo intuito che nemmeno lui sapeva bene dove fossimo andati a finire. Aveva voluto portarsi dietro sua figlia Anna perché, come sempre, le aveva promesso di fare un viaggio assieme, ma puntualmente non ci era riuscito. Allora decise di unire l’utile al dilettevole e sfruttò questa trasferta lavorativa per condividere anche del tempo con lei. Chiamammo le persone che ci stavano aspettando per avvisarle che causa un intoppo saremmo arrivati con alcuni giorni di ritardo.
Sulla statale trovammo un bar dove poter mettere qualcosa sotto i denti e sgranchirci un po’ le gambe. Era un ritrovo per camionisti, abbastanza frequentato, mangiammo con pochi spiccioli e prima di partire bevemmo un caffè per tenerci svegli finché non fossimo arrivati in qualche albergo dove passare la notte. All’uscita, appena misi il piede fuori dalla porta mi sentii tirare la mano e poi una zingara che era sdraiata a terra a chiedere l’elemosina, si alzò e mi disse che mi stava aspettando per leggermi la mano. Fui riluttante, ero sempre stato un tipo scaramantico e sapevo che qualunque cosa mi avesse detto, poi, avrebbe influenzato i miei giorni a seguire. Purtroppo lei però iniziò senza darmi il tempo di allontanarmi.
Guido che al contrario mio era molto scettico e si burlava delle mie fobie, iniziò ad inveirle contro e dirmi
« ma non crederai ancora a queste fandonie da ragazzini! ».
La donna lo fulminò con un’occhiataccia e gli disse
« tu sarai per loro causa di dolore e paura ».
Non volle nemmeno continuare a predirmi il futuro ma strinse la mia mano tra le sue e sussurrò
« torna a casa con la ragazzina, non proseguite il cammino insieme a lui ».
Mi spaventò, Anna era ancora in bagno e lei non poteva sapere che fossimo in tre. Le diedi dei soldi per provare a placare quella sua rabbia nei confronti di Guido, che nel frattempo era vicino alla figlia per allontanarla dalla signora che ancora lo fissava con fare minaccioso. Una volta acceso il motore misi la prima e mi allontanai ma dallo specchietto retrovisore vedevo ancora la rom che gesticolava affinché non me ne andassi.
« Come faceva a sapere che c’era anche lei assieme a noi?»
chiesi a Guido che però rideva e provava a trovare una risposta razionale a tutto quello che era successo.
« Sarà stata lì anche quando siamo entrati e ci avrà visti, non essere il solito. Suvvia siamo grandi ormai »
Provai ad ascoltarlo, cacciando quelle superstizioni ma come a farlo apposta, passò la voce del radiogiornale di ‘venerdì 17 agosto’.
Intanto il cielo si era fatto scuro e, come capita spesso durante gli ultimi giorni d’estate, stava per arrivare un temporale che dalle montagne si faceva spazio giù nella valle che ci stava di fronte. Scendeva talmente tanta acqua dal cielo che i tergicristalli facevano fatica a mandarla via dal parabrezza. Procedevamo a passo d’uomo e giusto a qualche centinaio di metri da noi, ci accorgemmo che una frana aveva bloccato anche questa arteria stradale.
Feci inversione di marcia, perché ricordavo che, appena un paio di chilometri prima, un cartello indicava giusto un paesino dove pensai avremmo potuto riposare nell’attesa che il tempo si fosse rimesso. Non erano passati che pochi minuti da quando eravamo entrati in questo piccolo borgo coperto dalla nebbia, costeggiato da un lago e l’auto andò in panne. La pioggia aveva smesso di cadere e un pallido sole illuminava quei grossi nuvoloni colorandoli di un nero ancora più intenso di quello che già possedevano. Dei corvi volteggiavano sopra quelle case vetuste e gracchiavano senza fermarsi. Ancora un segno negativo macchiava la mia non già bella giornata.
« Credo sia meglio chiamare un taxi ed andare via da qui »
dissi ad entrambi. Il mio intuito mi consigliava di allontanarmi da quel posto.
« Impossibile » dissero, « dobbiamo far riparare l’auto ».
Decisero di andare nel primo locale aperto per avere informazioni su dove ci trovassimo e se fosse possibile dormire da qualche parte. Una sottospecie di taverna si trovava proprio davanti alla piazza, il buio era piombato di colpo senza che ci fossimo accorti di nulla. Dalle due finestre filtrava l’unica luce che rischiarava quello spazio che ci divideva dall’entrata. Ero l’ultimo della fila e sostai ancora qualche minuto fuori per terminare la mia sigaretta. Il cigolio dell’anta di una finestra catturò la mia attenzione. Ebbi il tempo di scorgere l’ombra di una donna che si affrettava a nascondersi ma riuscii a notare ugualmente i tratti del suo viso. Erano spigolosi, estremamente curvilinei. Mi affrettai ad entrare e Guido era già indaffarato a parlare con un signore dietro al bancone. La piccola stanza era arredata con un mobilio retrò e due anziani se ne stavano seduti in silenzio giocando a carte col loro bicchiere di vino sul tavolo.
Appena il tempo di capire che potevamo dormire nelle camere di loro proprietà al piano superiore e di concordare un appuntamento dall’unico meccanico del paese il mattino seguente, che si manifestò all’improvviso una donna, dalla non decifrabile età, che sgarbatamente richiamò quello che capimmo essere suo marito e subito dopo anche Guido colpevole di essere un forestiero troppo curioso per i suoi gusti. Calò il silenzio per il forte imbarazzo, quell’anzianotto scappò come spaventato, la signora ci appoggiò le chiavi delle camere e, così come era arrivata, scomparve nel nulla. Io presi la singola e lasciai a padre e figlia la matrimoniale. Non ci proposero nemmeno di mangiare, digiuni e bistrattati salimmo le scale. La stanchezza aveva preso possesso del mio corpo, riuscii a stento a fare una doccia e poi corsi a letto.
La stanza era spartana, qualche quadretto interrompeva la monotonia dell’intonaco bianco e rustico delle pareti. Uno di questi, più grande degli altri, stava di fronte a me e sembrava raffigurare il paese dove eravamo. Senza tv e col telefono scarico decisi di mettermi a dormire, soprattutto per non sentire il brontolio dello stomaco che reclamava del cibo. Sentivo del disagio, come quando qualcuno ti fissa, ma lo attribuivo alle mie solite paranoie, anche perché ero l’unico in quella camera. Mentre mi trovavo in dormiveglia d’improvviso sobbalzai sul materasso. Ero più che certo di aver sentito una risata malefica seguita da un rumore di passi veloci. Non provenivano né dal piano superiore, perché non c’era nulla sopra di me a parte il tetto e neanche dalla stanza accanto perché quando provai a chiamare Anna e suo padre non ottenni risposta. Era come se provenissero da dentro le pareti ma provai a rimanere lucido e convenni sul fatto che la stanchezza mi aveva giocato un brutto scherzo. Dopo qualche ora finalmente mi addormentai e la notte non mi riservò ulteriori sorprese.
Anna venne a bussare alla porta per svegliarmi, al piano inferiore ci aspettava già il meccanico. Dopo aver fatto una colazione frugale andammo a sentire il suo responso. Il cofano era aperto e dopo essersi asciugato la fronte che grondava di sudore, ci disse che ci sarebbero voluti almeno tre giorni per riparare tutto. Doveva recuperare i pezzi e in questa zona non passavano spesso i rifornitori. A malincuore fummo costretti ad accettare la situazione. Quando rimanemmo tra noi, proposi nuovamente di andare via e di lasciare la macchina là. Avremmo mandato qualcuno poi a recuperarla. Ricevetti un altro no e per farmi desistere mi dissero che per loro era un’opportunità di rilassarsi in un paesino tranquillo, senza il caos della città.
« Facciamo un giro e conosciamo meglio questo posticino »
propose Guido. La gente che ci vedeva ci squadrava dalla testa ai piedi, nessuno si avvicinava anzi si allontanavano quasi disgustati.
« Non farci caso » disse Anna, « nei paesini è sempre così ».
« Boh, sarà …» le risposi.
Una cosa mi colpì più delle altre, ogni donna, bambina o ragazzina aveva i capelli biondi e gli occhi chiari, verdi o azzurri. Era un particolare curioso ma in quel guazzabuglio di stranezze non mi soffermai più di tanto. Dal campanile suonava mezzogiorno e, davanti la porta della chiesa, vidi un uomo se così si può definire. Era incurvato, coi capelli che conservavano qualche riflesso giallo ma ormai sbiaditi in un bianco chiaro. Il volto era appuntito, i tratti duri, mi ricordarono quelli della figura scura vista la sera prima. La somiglianza era netta ma ero convinto che fosse una donna e questo davanti a me era un uomo o almeno lo sembrava. Un prete per la precisione, con una tonaca nera.
Ci salutò con un sorrisino pieno di cattiveria velata. Incuteva timore. Si chiuse la porta alle spalle e ci impedì così di entrare per visitare quella piccola basilica. Questo posto iniziava a darmi sui nervi e, più mi innervosivo e più ogni singola cosa mi infastidiva. Pranzammo all’osteria mentre alla finestra, dietro i vetri, chiunque passasse si soffermava a guardarci e poi si allontanava. Me ne andai in camera per evitare ogni spiacevole incontro e situazione. Alla sera scesi per cenare e di corsa fui di nuovo nella mia stanza. Anche Guido e sua figlia preferirono non uscire. Tornai a rivivere quella sensazione di imbarazzo allo stesso identico modo della notte precedente. Mi sentivo puntati gli occhi di qualcuno addosso e il cuore si riempiva di paura. Poi nuovamente passi da una imprecisata zona ma io ero sicuro fosse dietro le pareti. Sentivo la testa pesante, in due giorni questo posto mi stava portando all’esaurimento. Ancora una risatina, un tonfo e poi il silenzio. Ero terrorizzato. Provai a chiamare i ragazzi ma, come sempre, non ricevetti alcun segnale. Non chiusi occhio al contrario di quanto era accaduto il giorno prima.
Alle prime luci dell’alba, non riuscendo a dormire, mi alzai e decisi di capire cosa nascondesse quella sinistra taverna in cui ci eravamo accampati. Scesi ma non trovai nessuno, tornai al piano di sopra e girai in lungo ed in largo il corridoio, ma nulla. Poi d’improvviso dalla cucina sentii qualcosa cadere e corsi di sotto ma, affacciatomi all’oblò che dalla sala pranzo dava sull’interno, non scorsi nessuno. I mestoli appesi però, stavano oscillando, chiaro segno che non era la mia mente che stava inventando tutto. Qualcuno mi aveva spiato e girava per il locale furtivamente. Quando si svegliarono i miei compagni d’avventure andai a raccontare quello che era successo ma come potevo già immaginare, le mie parole non vennero prese in considerazione. La paranoia aveva preso il sopravvento in me e avevo finito per avere una furiosa lite con Guido quando, all’ennesima mia richiesta di andare via, disse che io avrei potuto fare ciò che reputavo più giusto, ma che lui e la figlia sarebbero rimasti lì finché non gli fosse stata restituita l’auto. Più che per lui che era un uomo maturo per prendersi le proprie responsabilità, non volevo lasciare sola Anna e quindi decisi di rimanere, anche contro la mia stessa volontà.
Al tramonto del terzo giorno, quando fummo seduti a cena, la proprietaria si avvicinò verso noi tenendo tra le mani un tegame. Si sedette e, ricordandosi del modo in cui aveva risposto qualche giorno addietro, volle scusarsi porgendoci uno stufato di carne. Io, che come sempre, dubitavo di tutto, mostravo qualche remora nei suoi confronti. Per tutto il tempo non si era fatta mai vedere, né aveva chiesto se avessimo bisogno di qualcosa, poi tutto d’un tratto si presentava come una signora buona e gentile. Giusto per non sembrare ineducato ne assaggiai alcuni pezzi mentre padre e figlia fecero un’abbuffata. Stranamente quella sera l’osteria era più piena del solito, gente mai vista che ci scrutava senza mai distogliere il loro sguardo da ogni nostro singolo movimento. Il mio sesto senso suonava l’allarme, davanti a me stava Guido e alla mia destra Anna.
Avvenne tutto in una frazione di secondo. Caddero entrambi con la faccia sul piatto senza capire niente, io intuii cosa stava succedendo e provai ad alzarmi ma le forze mi abbandonarono e crollai a terra perdendo i sensi. Quella vecchia maledetta ci aveva avvelenato.
Non era altro che l’inizio della fine. Rinvenni alcune ore dopo. L’effetto del sonnifero era minore rispetto agli altri dato che avevo mangiato poco o nulla. Penzolavamo, appesi al soffitto in un magazzino e davanti a noi stavano un centinaio di persone. Avevano lunghe tuniche bianche e, frapposto tra noi e loro, stava un tavolaccio con lunghi coltelli e seghetti. La realtà lasciava poco spazio all’immaginazione. Quella chiromante aveva ragione, avrei dovuto rimanere in quell’area di servizio e non proseguire oltre. Nel frattempo anche Guido ed Anna avevano ripreso conoscenza e, alla vista di quegli strumenti di tortura e di morte, quella povera ragazza iniziò a gridare come una forsennata ed a dimenarsi, fino a svenire di nuovo per il terrore. Le lanciarono una secchiata d’acqua addosso per farla riprendere. Delle ragazzine si avvicinavano a noi sghignazzando ed odorandoci. Dicevano che la paura ci faceva emanare un buon profumo e che la carne sarebbe stata ancora più gustosa in questo modo. Se mi avessero lasciato libero le avrei strangolate ad una ad una con le mie mani, quelle gallinelle starnazzanti.
Quel gruppo di psicopatici ad un tratto si aprì lasciando un corridoio centrale da cui si fecero avanti tre donne. Riconobbi quello che io avevo scambiato per un uomo. Non era affatto il prete ma una donna che era sicuramente riconosciuta come una figura importante in quella comunità di folli. Ai suoi fianchi vi erano altre due bionde che le somigliavano parecchio, ipotizzai che fossero le sue figlie. Con voce rauca si avvicinò al mio orecchio e mi disse
« se loro ti avessero ascoltato a quest’ora vi sareste salvati la vita, ma fortunatamente il tuo amico è testardo. Per la tua insistenza ti terremo per ultimo e vedrai morire i tuoi amici. Ti riserveremo il miglior trattamento di tutti. Ci sbizzarriremo sul tuo bel corpo »
Preso dall’ira e capendo di non avere più nulla da perdere le sputai in pieno volto. Un uomo che stava dietro me mi colpì violentemente alla schiena con un bastone facendomi sputare sangue.
A quella vista urlarono come forsennati, eccitati da quel liquido vitale che fuoriusciva dalla mia bocca.
Si inginocchiarono tutti ad esclusione delle tre sacerdotesse che si munirono di coltelli e, toltici i vestiti, iniziarono a divertirsi tagliuzzando e pungendo me e Guido. Anna era il vero fulcro della cerimonia. La vergine sarebbe stata dissanguata senza che le fosse torto capello. Il suo corpo doveva rimanere intatto e doveva essere donato al loro idolo pagano. Man mano che a terra diventava rosso, cercavano tutti di avvicinarsi per bere. La rabbia e l’adrenalina mi facevano contorcere mentre Guido era completamente nel panico e implorava pietà a sua figlia ed a me per non avermi dato ascolto.
Di scatto, tutte e tre gli furono addosso e lo colpirono con vari fendenti. Uno di questi arrivò dritto al cuore e, fortunatamente, pose fine a quella tortura che altrimenti si sarebbe perpetrata ancora per chissà quanto tempo, facendolo morire soffrendo più di quanto non avesse fatto fino quel momento. Un’esplosione di giubilo, seguito dalle tre che addentavano diverse parti del corpo divorandole, come fossero bestie selvatiche. Quella ragazzina a quella vista non riuscì a rimanere lucida e ancora una volta perse i sensi.
Coi loro volti sporchi di sangue vennero ancora vicino me e una di esse, avvicinandosi mi sussurrò « diventerete un ottimo stufato anche voi due, come quello che vi è stato servito ieri sera. Era buono vero? » Quella sua macabra risata risuonò e capii essere la stessa che avevo sentito quando stavo nella camera a dormire. Dietro quelle pareti vi erano passaggi segreti che questi mostri utilizzavano per tenerci sotto controllo. Anche questo mi fu detto dalle tre donne. Intanto alcuni uomini avevano portato dei grossi secchi dove sarebbe stato raccolto il sangue di Anna. Erano tutti in attesa che si svegliasse per officiare il rito nel migliore dei modi. Quelle ragazzette che erano già state vicino a noi stavano strappando a morsi il ventre di Guido. Era una scena a dir poco raccapricciante.
D’improvviso, quando avevo iniziato a fare il conto alla rovescia con la mia vita, un rombo e il capannone di lamiera in cui ci trovavamo, iniziò a tremare. Non riuscii a capire subito di cosa si trattasse ma – appena dei fari dall’alto dei finestroni che si trovavano al culmine del tetto illuminarono tutto – mi resi conto che quel rumore era prodotto dalle pale di un elicottero. Le porte che circondavano il locale furono letteralmente sfondate dai reparti speciali del NOCS che si lanciarono su quella folla bloccandola e sparando su chi stava provando ad ucciderli. Riuscirono a tranciare le catene a cui eravamo imprigionati e alcuni di loro presero la ragazza e si dileguarono immediatamente.
Mentre provavo a seguirli, sfuggendo a quella carneficina, la grande sacerdotessa si lanciò verso di me con un’accetta cercando di uccidermi. Urlava come una forsennata e, resomi conto di quello che stava per accadere mi spostai di scatto e provai ad afferrare un coltello. Si girò e si gettò addosso a me ferendomi ad una spalla. La lama era entrata poco per fortuna. Bloccai il suo braccio e la colpii con un pugno sulla faccia. Non si dava per vinta e provava a liberarsi. L’ira e l’odio per quell’essere diabolico si impossessarono di me e le affondai il coltello nel ventre. Afferrò il mio collo con l’altra mano ma ormai aveva perso ogni forza ed io infierii girando e rigirando la lama. Gridai sfogando tutto il mio dolore e mi accorsi che dietro me stavano una moltitudine di cadaveri. Pochi erano stati arrestati o si erano consegnati vivi alle autorità.
Mi trascinarono fuori e fummo caricati su delle ambulanze. Mi risvegliai il giorno dopo in ospedale e al mio capezzale stavano due personaggi con un vestito nero e due distintivi. Erano degli investigatori, vollero sapere tutto quello che ci era accaduto. Chiesi notizie di Anna e fui rassicurato. Stava bene ma ovviamente era ancora sotto shock.
Prima che uscissero però, fui io a chiedere come facessero a sapere che in un luogo così disperso, esisteva la porta dell’inferno. Uno dei due cambiò tono di voce, che di colpo si fece cupa.
« Mia figlia era appena arrivata all’imbocco di questo paese degli orrori quando, dopo aver letto l’insegna e avermi rassicurato sul fatto che avrebbe trascorso lì la notte per non guidare, mi diede la buonanotte. Fu l’ultima volta che la sentii.
Era da un po’ di tempo che controllavamo la zona per capire cosa succedesse. Troppe scomparse, troppe cose strane. Un velo di omertà copriva tutte le tracce e le nostre indagini erano ad un punto morto. Poi, però, abbiamo notato la vostra auto che si addentrava in questo posto e non era segnalata tra quelle di proprietà degli abitanti. Abbiamo deciso di dare il via al pedinamento e se le cose fossero precipitate, al blitz.
Purtroppo non abbiamo trovato subito il capanno in cui eravate tenuti prigionieri e per il vostro amico non c’è stato nulla da fare. Adesso proveremo a dare giusta sepoltura ai corpi che riusciremo a trovare tramite le confessioni degli arrestati » .
« Non credo che ne troverete. Non si limitavano ad uccidere ma vivevano di vero e proprio cannibalismo. Ai forestieri servivano stufati di carne umana avvelenati ed il resto lo conservavano per i periodi in cui non trovavano prede fresche da mangiare» .
« Mio Dio che spettacolo orripilante! » esclamò l’altro agente.
“Il male non è spettacolare ma umano, e dorme nel nostro letto e mangia al nostro tavolo.”
Wystan Hugh Auden