Lettura n. 28 Dissociazione elementare, Visioni d’abbandono
Dissociazione elementare di Silvia Gelosi, Arcipelago Itaca editore Visioni d’abbandono di Giuseppina Sciortino, Transeuropa edizioni
Ho scoperto la poesia e la sua fascinazione da piccola, ricordo che in una casa tutta femminile, con mia madre e due sorelle più grandi, i libri erano quegli elementi che non mancavano mai. Mia sorella maggiore fece una sorta di abbonamento che le consentiva di ordinare e ricevere a casa tanti libri pagandoli poi con un rateizzo assai conveniente. Così un giorno arrivò uno scatolone targato Einaudi con una ventina, almeno, se la memoria non mi tradisce, di libri di poesia. Scoprii un po’ alla volta, Tennyson, de Musset, Hikmet, Neruda, e via via me ne innamorai. Ero in quinta elementare. Iniziai ad avvicinarmi alla scrittura, non in forma diaristica, ma poetica, e con l’adolescenza riversai su carta il mio sentire. Oggi ho sempre una sorta di pudore quando mi accosto alla poesia attuale, e con rispetto ho letto e apprezzato i lavori, molto diversi nello stile ma meno nel contenuto, di due poetesse italiane al loro esordio, (la Sciortino ha già scritto un romanzo in precedenza). Interessante quanto diversamente elaborata ci sia la solitudine femminile in questi due lavori.
In Dissociazione elementare il luogo della casa, le finestre, la cucina, il lavandino, la pianta, fanno da specchio allo stato d’animo d’abbandono della voce dell’autrice, tutta imprigionata in un angusto susseguirsi di giorni, contati come fossero scritti su un muro di un carcere personale, in “una matematica che non quadra”. L’Io è frantumato in tanti pezzi mercuriali e sperduti che vorrebbero, in fondo, molto in fondo, a tratti quasi in modo inconsapevole, ritrovarsi in un abbraccio per ricomporsi. Il quotidiano della solitudine forzosa all’interno di gesti meccanici e ripetuti come una catena di montaggio, sviliscono la ricerca dello spirito che vorrebbe oltrepassare limiti e confini materiali e non. Una pagina scritta in corsivo si alterna con l’altra scritta in stampato dritto, entrambe sono la doppia espressione di una storia poetica che per quanto impregnata di spontaneità autobiografica ha sempre cura della parola e della ferita individuale che sa innalzarsi e diventare voce universale.
“Siamo due vent’anni non vissuti, luoghi senza pelle
fermi. Siamo ogni no scelto dagli altri. Un viaggio
che non torna il nostro, due binari incrociati per errore
mischiati tra le strade, voci senza tono. Siamo due per tre
ma tu uno in più, un filtro stretto, un difetto. Siamo
quello sbaglio che continua a rompersi nei giorni adatti,
senza il riparo delle scuse”.
Di diverso sapore l’opera di Giuseppina Sciortino, che pur partendo da un intento autobiografico, da un racconto personale di donna, trova forma in una prosa poetica molto pop, moderna, ricercata nel lavorìo della frase e della scelta sempre precisissima delle parole. Un periodare libero, fuori dagli schemi e molto vicino alla prosa, ci disegna le “visioni d’abbandono”, costruendo un canto, ritmico e lungo, senza vuoti, senza spazi, come a volerlo pronunciare a voce in un sol respiro. Travolge il racconto di un amore attraverso scenari realistici, tangibili: treni, strade, case, immondizia, shampoo, promesse non mantenute e solitudine. Ma mai disperazione a caldo, sembra piuttosto un dolore rappreso quello dell’autrice, un sapere lucido delle ferite sofferte, una consapevolezza dell’essere da cui o partire o morire.
“…Sono come un trabiccolo ambulante, con ingranaggi da oliare ogni giorno
-altrimenti va in ruggine-
A furia di cherosene e inchiostro.
Chi vuol restare resti, tu sei fra quelli
Che vanno, solo l’immagine persiste.”
La direzione dello sguardo poetico di Sciortino non sbanda mai, è precisa, affonda e restituisce le visioni più concrete che mai, “si può valutare solo a mente fredda, tenendo conto di fatti… (…) bisogna ragionare per processi, attingere al data base del pensiero logico, prendere solo il necessario… Ancora ci sto provando ma non succede niente.” Si vede che il magma dell’impulso a sentire il mondo e la propria dimensione emotiva in maniera ipersensibile vorrebbe appellarsi alla precisione delle parole per mettere ordine nelle emozioni, che però sbuffano come aria bollente a pretendere il loro legittimo spazio di vita.
In comune le due opere hanno il grido interiore di donne che a dispetto del vissuto cercano la libertà di ricomporsi e Vivere non sopravvivere.