Mi hanno accoppato il mondiale (che però già stava maluccio)
Alla fermata del bus numero 13 direzione Largo 8 marzo ci sono due tizi giovani, entrambi con il ciuffo sul davanti e qualche brufolo sul mento, il più alto con l’orecchino sul destro, il più basso con la sigaretta sulla sinistra. Sono probabilmente autoctoni. Dico probabilmente perché oramai al nord c’hanno tutti lo stesso slang da immigrato milanese e a meno che non siano del Cadore o della val Trompia non ci si capisce mica più nulla. Ho la vaga impressione che fare un passo a sinistra e tentare di captare le loro frequenze potrebbe causarmi un calo di fiducia nel divenire. Ma in fondo pure io ai tempi ne ho dette di castronerie alla fermata dell’ 8 direzione Via Nenni. Quindi? Parlano di mondiali, mi par di capire. Uno dice, letteralmente, che fanno cagare. Che si giocano a dicembre e poi manco c’è l’Italia. L’altro dice che lui comunque li guarderà, perché ai mondiali ci sono quelli buoni e comunque di partite belle se ne vedranno.
– Boh, c’è un sacco di gente che dice su a sto mondiale. Però alla fine chi cazzo se ne frega. É il mondiale, voglio dire. Cazzo me ne frega se li fanno in Qatar.
– Si vabbuò, ma sono discorsi da boomer. Lascia perdere, bro.
Sempre sta parola. Quando non sanno cosa dire dicono boomer. Poi arriva l’autobus che tira su i ciuffi sul davanti, gli orecchini, le Nike con i trampoli, i mondiali e il boomer che non ho ancora capito se già lo sono o forse presto lo diventerò.
– Il più pulito c’ha la rogna – dice il vecchio signore con radi capelli bianchi. Scrolla la testa e osserva schifato una pletora di politici con radi capelli bianchi come i suoi, ma la pelle meno raggrinzita e occhiali dalle montature importanti. Trent’anni da emigrato in una città di fabbriche e condomini beige gli hanno insegnato a insultare chi appare in televisione. La coscienza di classe è tutta qui.
– Togliete queste facce di merda e fatemi vedere la partita, va – chiosa il signore. E io sono d’accordo con lui. E lo dico che sono stufo di aspettare, lo dico perché io sono un bambino piccolo con un caschetto biondo e un’ansia che gli strizza le budella e anche se sono a casa di vicini perché nonna ha un televisore di merda in bianco e nero senza manco telecomando che tanto per guardare Derrick va bene anche quello e il benessere è arrivato anche in queste lande appenniniche ma non per questo bisogna dare i soldi a quello del negozio delle TV che poi è anche una brutta persona, posso permettermi di smaniare e sbraitare senza troppa educazione. Questa sera nessuno mi riprenderà per il mio comportamento. Che è il tre luglio millenovecento e novanta come i minuti durante i quali imparerò nuove imprecazioni, maledizioni, bestemmie. A cui seguiranno altri trenta minuti da tregenda e alla fine calci di rigore e Argentina in finale dei mondiali, io in lacrime e il signore dai radi capelli bianchi a incolpare il pentapartito per la disfatta.
Ora, se la memoria di boomer non mi inganna, quella è stata la prima delusione della vita mia.
Quindi ai due gaglioffi dal ciuffo importante che i mondiali si giochino in un paese canaglia in pieno dicembre non importa nulla. Chissà se poi è vero. A quell’età se ne dicono di cose. Faccio uno sforzo e mi metto nei loro panni. Fai conto che quando avevo la loro età si disputava il mondiale 2002 in Giappone e Corea. Mettiamo che il Giappone fosse stato un paese di crumiri che sfruttava i lavoratori filippini e li faceva crepare per costruire l’Arigatò Stadium che a fine mondiale avrebbero smontato e venduto alle Filippine stesse a prezzo maggiorato. Che la Corea avesse battuto le donne a mo’ di tappeto ogni qualvolta avessero aperto bocca. Che abbracciati assieme, come vecchi compagni di sbronza, i due paesi avessero pisciato su ogni diritto civile. Ecco, questo sarebbe bastato a farmi spegnere il televisore? A rinunciare a quel bellissimo pranzo con amici durante la finale? Ti ricordi che mentre il Brasile festeggiava il mondiale tu guardavi gli appennini, il vino dolce irrorava i tuoi vasi linfatici e pensavi che quando i tedeschi la prendono nello stoppino è sempre una bella giornata?
Quel bellimbusto spagnolo dietro di me mi sta proprio sui coglioni. Solo che ha un paio di anni più di me. E poi è più grosso. Trattieni la lancia, Aiace. Non è cosa per te. E poi siamo in Spagna. E noi italiani nel villaggio non siamo nemmeno tanti. Eravate di più l’anno scorso, ha detto un cameriere ieri sera. Per forza, ha buttato lì un tizio di Cesena, abbiamo fatto vincere le elezioni al Berlusca e ci vergogniamo a farci vedere in giro. Il cameriere se n’è andato. Lui Berlusconi non lo conosce mica. E poi era una battuta di merda, se vogliamo dirla tutta. Ma la Spagna ha pareggiato, cazzo. E guardalo il bellimbusto come grida e sventola quella bandiera. Ma datti una calmata coglione. O Gesù bello, facci vincere e faccio il bravo per quattordici giorni. Giuro. E Gesù bello alita sul campo, il difensore va lungo e il pallone di Baggio, Roberto, entra in rete. Io mi giro e faccio coppetta con le mani sull’inguine e grido “Suca!” e nessuno mi dice niente e anzi il tizio di Cesena mi suggerisce di sventolargli la lancia di Aiace a quei Visigoti. L’Italia ha vinto, vale tutto. Isteria collettiva. Però non ho fatto il bravo. So già che Gesù mi punirà. Tipo in finale. Ai rigori. Con il Brasile. Merda.
Non lo so cosa avrei fatto al posto dei gaglioffi ciuffoni. Forse non lo so in generale, che bisogna fare di questo mondiale. L’ipocrisia, si sa, è dietro l’angolo. E non partecipare all’entusiasmo di un Ecuador a punteggio pieno nei gironi fa tanto male. Io dei mondiali so tutto. Tipo, se mi chiedi chi fu capocannoniere nel 1958 senza pensarci ti dico Just Fontaine, Francia, tredici gol. Ho un librone grande dove ci sono tante storie sui mondiali. Mi ha accompagnato in tutti questi anni. Quando ero sul cesso, ma anche quando il cesso ero io, o meglio così mi sentivo. Mi sono aggrappato alle storie sfortunate dell’Ungheria di Puskas, rivoluzionarie dell’Olanda di Cruijff, tragiche del Maracanà di Rio de Janeiro. Ho vissuto i mondiali a fianco di familiari, amici, sconosciuti, bastardi, santi e manigoldi. Ho ancora in mente il tabellone dell’areoporto di Heathrow che annuncia il terzo goal di Petit e la Francia campione del mondo nel 1998. Io appena sbarcato a Londra per amor di conoscenza come un giovane e polimorfo Odisseo. Quale cuore stava esultando di più in quel momento, il mio o quello di un qualunque mangiabaguette in Place de la Concorde?
Storie d’amore lunghissime, infinite, lente. Cordoni ombelicali mai tagliati del tutto. Passioni che cuociono lentamente come stufati. Per le persone, le cose. Anche per i mondiali. Quelle storie sono cresciute con me. Si sono modificate con me. Perché come diceva Eraclito, tutto è in divenire. Quindi li guardi questi mondiali? No, non li guardo. Lo so, è uno strazio. Per tutto quello che ho detto prima, altro non è che uno strazio. Ma c’è un limite a tutto.
Davvero: è tutto troppo brutto. Già la mistica negli ultimi mondiali era diventata misticanza, se dobbiamo essere sinceri. Che c’è di bello nel sapere tutto di tutti? Nell’assenza di mistero per una nazionale africana, nel non poter fantasticare sulla carriera e la vita di un giocatore perché su Instagram costui ti racconta tutto di lui e non è certo un racconto edificante, nel voyeurismo malsano che investe l’evento e, come direbbe un pubblicitario, te lo porta direttamente in casa. Ti ci ingozza e nausea, aggiungo io.
Ma questi mondiali rappresentano il Brutto con la B per l’appunto maiuscola. Non c’è più nemmeno la misticanza, si sono venduti pure quella. Apoteosi e punto di non ritorno di una società che ha ormai perso il contatto con la bellezza. Che non la sa manco più riconoscere. Che io lo so che se ora mi alzo e vado dai ciuffoni seduti in fondo al bus e gli chiedo che cos’è la bellezza mi parlano di griffe, soldi e pacchianate in generale. Il mondiale è (era) quello che per gli ateniesi era il teatro, un tentativo di tradurre le tensioni interne in agonismi costruttivi, ricavare dal caos di confini e bandiere un ordine e una forma. Ergo: bellezza. E invece qui sotto la terra oltre il petrolio si percepisce la minaccia delle Erinni che nel mito di fondazione di Atene la Dea ricacciò nelle profondità. Solo la bellezza, la ragione, il logòs possono tenerle a bada. Qui mi sembra che emergano eccome. Sotto forma di diritti civili mancati, soldi, sfruttamento.
Rivendico quindi il mio boomerismo e scendo dall’autobus. Che a me di quell’Omam-Biyik che saltò fino al cielo per regalare un sogno al Camerun in una calda serata milanese mi basta sapere che si chiamasse Francois e il resto ce lo metto io. Che alle wags preferisco i capelli ingellati di Meazza. Che le persone le giudico per quello che dicono più per quello che gradiscono.
E il mondiale non lo guarderò per amor di bellezza. Per rispetto di tanti. Mi rifuggerò nel mio librone, nel mito, nel bello. Nel guizzo di Francois Omam-Biyik.