Furto 47 – Stazione
Stazione di Messina.
Si avvicinano due ragazzi. Riconosco i tratti dei loro volti, li sento, sono eritrei, ne ho certezza.
Mi chiedono informazioni in lingua tigrigna. Non li capisco, ma riconosco il suono delle loro voci, suono di canti e di lamenti, di terra rossa e povertà. Proviamo a capirci in inglese, a gesti. Vogliono sapere come arrivare a Napoli. Provo a spiegargli le varie possibilità che hanno, cerchiamo assieme le soluzioni, vagliamo treni, autobus, passaggi in macchina.
Mi emoziono.
Uno dei due ragazzi ha una felpa rossa, avrà al massimo sedici anni, forse meno. Ha il volto scarno, è sporco, gli occhi stanchissimi. Sulla testa un cappuccio che nasconde a fatica dei capelli ricci. Mi dice che non hanno soldi, ma non me li chiedono.
Escludiamo il bus perché i controlli sarebbero immediati. Capiamo che l’unica soluzione plausibile, quella che almeno può offrirgli una flebile possibilità di arrivare a destinazione è il treno.
Prenderanno l’Italo delle 7.42.
Gli dico che conosco l’Eritrea. Non capiscono. Gli dico ancora
‘Digsa, sono stato all’ospedale di Digsa’.
Adesso capiscono, sorridono, mi stringono la mano due, tre volte di seguito. Loro sono di Decamerè. Mi chiedono il wifi del cellulare, chiedono scusa
‘sorry friend, sorry’.
Si accovacciano sul marciapiede, li guardo da dietro, sento i loro battiti. Rimaniamo così, vicini, estranei e simili, aggrappati alle nostre vite, alle nostre storie, ai nostri percorsi tanto diversi e così ingiusti.
Si rialzano, mi guardano, vengono da me, di nuovo, di nuovo sorridono e mi ringraziano. Vanno verso la stazione.
Che il vostro Dio vi abbia nelle sue mani.