Kindness
Qui parlo di tre fatti veri che appartengono a persone gentili. La gentilezza non è sinonimo di debolezza, anzi. Nè di mancanza di coraggio o di carattere. Io ho sempre pensato così, e sempre sono stata attratta dalle persone gentili. Tutti, nella mia famiglia d’origine. Oltre che belli, colti ed educati. Niente affatto deboli o con poco carattere. Se hanno avuto una colpa, inconsapevole, quella di lasciarmi credere che le loro qualità eccezionali fossero la regola. Ci ha pensato la vita, poi, a svegliarmi un po’; e a farmi rimpiangere i gesti di gentilezza. Quella vera, senza secondi fini, senza troppe parole. Quella che viene dall’anima. E che brilla talmente da fare quasi paura di potersi abbagliare.
Mio padre Arturo, di cui scrivo spesso, ne era ampiamente fornito. E direi proprio di averlo ereditato, il suo cuore gentile. Che non è di gattino, ma di tigre della Malaysia, quando serve. Guai a suscitare le ire delle persone gentili. Conservo caro un episodio, uno dei tanti in cui mi rifugiavo nel suo abbraccio in lacrime. Degli stronzetti in classe, alle medie, mi prendevano in giro, perché in realtà invidiosi. Ero la più piccola e la più brava; grassoccia, mascolina, con gli occhiali e l’apparecchio per i denti. Davanti a loro, figlia di Ares e nipote del Sole sapevo difendermi, ma a casa sfogavo tutta la mia amarezza. Un giorno mio padre mi dice:
“Domani vengo a prenderti, all’uscita da scuola”.
Serafico, calmo, come era quasi sempre. Un gattone. Con gli occhi d’oro. Di tigre. E così fa; il giorno dopo me lo ritrovo fuori da scuola, dopo aver sceso le scale col consueto corteo di insulti alle calcagna, pronto a seguirmi in processione per la strada. Alto, scuro, silenzioso, nobile. Mi si avvicina, si ferma davanti ai teppistelli e li guarda in faccia, uno ad uno. Gli occhi di tigre pronta allo scatto. Non dice loro nulla, ma non distoglie lo sguardo per un solo attimo, mentre si rivolge a me, prendendomi lo zaino.
“Andiamo a casa, su”.
Il giorno dopo mi domanda se mi avessero ancora dato fastidio.
“No, no, papà, grazie. Sei stato prezioso. Hanno finalmente capito che devono lasciarmi in pace!”.
Mi rivolge un sorriso triste e aggiunge:
“Se qualcuno non avesse ancora chiaro il concetto puoi dirgli che torno lì e lo rompo in due”.
Calmo, serafico, gentile. Implacabile.
Fabio invece lo conobbi in campagna, nella casa di vacanza di una mia cugina grande e stronza. Figlia unica, viziata, annoiata, mi trattava come un cagnolino. Un posto isolatissimo alle porte della capitale. Di fronte a noi un’unica casupola, quasi una baracca, abitata da una coppia di contadini con due figli maschi, più o meno della mia età. Visto che non c’era mai niente da fare, io e il più giovane avevamo fatto amicizia. Ricordo bene il suo nome, Fabio. Ha 11 anni, io 9. Mi insegna a fischiare con due dita e ad andare in bicicletta. Ed è pure bello. Biondo coi denti bianchissimi e dritti e gentile. Tanto che un giorno che cado con la bici sui sassi, perché ovviamente avevo scelto la strada peggiore per fare pratica, mi raccoglie furiosa e sanguinante. Ha un viso davvero preoccupato, un’ombra di paura dentro lo sguardo turchese. Pianto gli occhioni neri sulle lentiggini dorate sue. Quanto mi piacciono, le lentiggini. Gli dico, tutto d’un fiato:
“Ti amo”.
“Promettimi che mi scrivi e che non mi dimentichi!”
Aveva detto la piccola Ilaria accompagnandomi al treno. E mettendomi in mano il suo cuore dentro cento disegni. Che portai con me, sul cuore, nella tasca della camicia. E ci scrivemmo io e lei, per un po’. Lei dal suo mare grossetano, che si portava ovunque negli occhi, io dalla mia tundra romana. Ma quando io e lo “zio” Danilo ci lasciammo non fui più in grado di risponderle e lei, dopo un paio di tentativi a vuoto, decise di archiviare la nostra amicizia, distratta da nuove avventure di vita, con la freschezza dei suoi dieci anni. Io ne avevo solo dieci e spicci in più. E me ne sentivo ottanta, in quel periodo. Eppure lei è rimasta indelebile, nei miei ricordi, tanto da farmi desiderare di lavorare stabilmente coi bambini. Saggia decisione. Mentre lo zio Danilo con il suo abbandono mi fece prendere l’infausta decisione di non iniziare mai più relazioni con artisti, perché come lui ormai li ritenevo inaffidabili e crudeli, tanto da rinunciare all’amore più sincero per seguire il loro ego smisurato e folle. Così, grazie ad Ilaria ho fatto l’insegnante e grazie a Danilo ho fatto Emma Bovary. Quel giorno verso il treno che da Orbetello mi riportava a Roma verso le ire materne erano tre, i miei scudieri; la bambina, il moroso e il suo collega, Aléxandros detto Alex. Un bel ragazzo greco-pisano che somigliava a Cat Stevens e parlava come Panariello. Fenomenale nelle imitazioni, suonava la chitarra, era la spalla comica dei siparietti di Danilo, rideva sempre e stava spesso con noi… troppo spesso. Ma io non capivo; innamorata persa del mio narciso, non vedevo rose o margherite intorno. Distillato puro di idiozia, ero, all’epoca. Alex sapeva bene che ero figlia di pittrice, pittrice a mia volta, e che adoravo gli animali. Mi volle salutare a modo suo, mettendomi in mano il suo modo di farsi ricordare. Il disegno di un cagnolino buffo e triste, come era stato lui, in quei giorni di sole con noi. Buffo per farci stare bene con le sue battute e triste perché io non ero per lui. Quando il treno iniziò a muoversi, una scena che mai più scorderò: Alex tira fuori un fazzoletto lunghissimo, simile a quello dei prestigiatori, con cui si soffia il naso per finta e avvolge la bambina, facendola ridere in mezzo al pianto. Danilo saluta, muto, gli occhi zaffiri lucidi, ma già pensa alla serata da animare, sono convinta, Ilaria in lacrime di gioia con le manine alzate; io lancio teatrale dei kleenex dal finestrino, ridendo forte col cuore a pezzi, Alex si butta in ginocchio a raccoglierli e ci tuffa il naso in mezzo, buffone come sempre. Ma forse, l’unico a piangere forte era davvero lui.