Labbra cucite
Sono nata in una non meglio nota zona dell’Africa centrale, intorno alla metà degli anni ’80. Sì, proprio quelli in cui voi avete vissuto l’epoca d’oro del benessere. Beh io non proprio, non ho molti ricordi limpidi della mia giovinezza, correvo scalza tra la polvere delle strade dissestate del mio villaggio. Non è che ci fosse molto da fare, a parte iniziare a sgobbare fin da bambini per riuscire a mangiare qualcosa che ci permettesse di stare in piedi senza svenire per la fame.
Io facevo parte di una famiglia con altri sei fratelli e tre sorelle, di cui io ero la più piccola. Queste ultime erano già madri, perché qui la nostra cultura ci impone di andare in spose molto giovani. Non è che il ruolo della donna qui sia molto rilevante, apparteniamo a un uomo a cui dare figli e a cui cucinare da mangiare. Quando le mie sorelle ebbero una determinata età ricordo che le prepararono per un rituale al quale tutte qui devono sottoporsi.
Chiedevo a mia madre cosa stessero per andare a fare ma lei non mi rispondeva mai, non mi era dovuta una spiegazione e l’unica cosa che mi diceva era
“un giorno dovrai farlo anche tu, sarà in quel momento che diventerai una donna e sarai pronta per andare in sposa”.
Io poi non è che fossi molto convinta, quando tutto avveniva le sentivo urlare, piangere e per parecchi giorni dopo le vedevo a letto immobili e paralizzate dal dolore. Ma questo era quello che mi diceva e io avevo già capito che non avrei mai potuto sottrarmi a questa prassi.
So che voi bambine dell’altra parte del mondo, quello meno cruento, giocate con le bambole, i problemi li rimbalzate, vi divertite, andate a scuola, avete dove dormire, comode, avete l’acqua per lavarvi tutti i giorni, per togliervi la sete. Qui non è così che va, faccio dieci chilometri al giorno per andare a prendere una brocca d’acqua all’unico pozzo disponibile, quando torno è già il tramonto e nella capanna trovo qualche misero resto da dividere con il resto della famiglia. Il mio letto è fatto di pagliericcio e le mosche e le zanzare mi tormentano non lasciandomi dormire.
Avrei voluto imparare a leggere, studiare ma non esistono scuole qua. Arrivano di tanto in tanto dei volontari, cercano di fare il possibile, ci lasciano delle scorte in caso di necessità ma tutto finisce immediatamente. Non viviamo nelle migliori condizioni sanitarie e quindi dobbiamo adoperarci con quei pochi mezzi che possediamo per riuscire a curare chi ne ha bisogno. Siamo stati coinvolti in questi anni da decine di guerre, tra bande, etniche e religiose, di confine tra stati, viviamo momenti di tregua e altri di turbolenze. Quando arrivano i guerriglieri fanno razzia, stuprano e se ci si oppone, uccidono anche. Infatti a noi ragazzine molte volte ci fanno nascondere per evitare il peggio.
Proviamo comunque a essere felici ugualmente nonostante abbiamo poco. La felicità non sta nei beni materiali ma dentro e se si sta in pace con se stessi, lo si è già parecchio. Quando cammino da sola per portare l’acqua a casa nel silenzio assoluto, interrotto dai versi degli animali, mi sento libera, respiro l’aria che poi scende e mi riscalda la pelle. Sono sensazioni che difficilmente riesci a spiegare se non le provi.
I miei anni sono trascorsi così, spensierati nonostante la povertà, e mentre cresco so che tra poco diventerò donna e dovrò abbandonare questi momenti e lasciarli ad altri dopo di me, magari ai miei figli. Al rito a cui mi sottoporrò non sarò sola, altre ragazze vi prenderanno parte. Una dopo l’altra passeremo dalla giovinezza allo stadio successivo. Non sono molto serena, non tutte si riprendono dopo questa fase, alcune hanno danni, altre è capitato che ci lasciassero. Ci dicono che non succederà nulla ma alcune iniziano a piangere. Dentro la capanna entrano solo le ragazze da “operare”, la madre e l’anziana che svolgerà questo rituale.
Divento sempre più preoccupata, gridano tutte, tante svengono, e io penso che siamo vittime di qualcosa di troppo vecchio e insensato. Serve solo per farci sentire legate a vita a una persona che prima sarà nostro padre come proprietario della prole e dopo di un uomo che ci utilizzerà solo come oggetto di piacere per lui, dolore invece per noi, completamente cucite dentro.
Ero quasi pronta, un’ultima ragazza, la quale uscì nelle stesse condizioni fisiche e morali delle altre.
Poi fu il mio turno…
Mi chiusero le labbra, affinché non potessi parlare, non potessi esprimere il mio essere donna, non potessi sentirmi “mia”. Ero della mia famiglia, dei pregiudizi, di un padrone e non di un padre. Con un filo ero legata per rimanere imprigionata al dolore e ai tabù. Mi recisero la femminilità e cucirono le mie urla. Non potevo provare mai più sensazioni, ero un manichino frigido da vendere al miglior offerente della mia tribù. Bloccata, immobile di fronte ad un lago di sangue che scorreva dentro la capanna. Un animale da seviziare finché non si fosse compiuto tutto secondo tradizione.
L’anziana di colpo si blocca, mentre io perdo i sensi dal forte dolore. Dice a mia madre che sono troppo debole, di preparare il letto e appoggiarmi lì sopra. Bisogna curarmi, non sto bene, di farmaci tradizionali non ce ne sono, mi curano con delle erbe che hanno poco effetto. Distesa, incosciente trascorro gli ultimi giorni della mia breve vita in questo luogo.
Mi chiedo perché?
Perché farci del male, perché non lasciarci vivere libere come dappertutto e non sotto una cappa di paura e di tradizioni sbagliate, perché non lasciarci essere donne con la D maiuscola. Chi può decidere sulla mia vita, chi può deformare parte del mio corpo solo perché si è sempre fatto così? Quante altre se lo saranno chieste prima di abbandonare questa vita troppo precocemente?
Credo che siamo state in tante e mi dispiace pensare che tante altre lo faranno. Siamo come alberi spezzati da un fiume in piena. Siamo vergini pure macchiate dal nostro stesso sangue per scelte altrui. Mi stanno sfrattando dalla mia vita che ho sempre amato, hanno deciso che questa mattanza vada perpetuata nel tempo come simbolo della nostra cultura.
Io voglio che non lo sia più, slegateci, non recidete la nostra essenza femminile, squarciate il velo dei tabù. Abbandonate questi strumenti di tortura, bruciateli e distruggeteli. Non bloccate le labbra perché hanno bisogno di parlare, di urlare questo “Basta!”.
Così termina questa mio breve passaggio su questo triste e polveroso suolo africano. Terminano le speranze di una bambina che voleva crescere dei figli e vedere i suoi nipoti.
Non sento più dolore, tutto sta finendo per come è iniziato, dentro una piccola capanna nel cuore della grande Africa.