La traduttrice
Una stanza bianca. Una pianta di ceramica a forma di cactus a grandezza naturale, ossia grande quanto un bambino di cinque anni. Verde coi fiori rosa. Una finestra senza tende, ma con robuste persiane di legno. Verde. Uno scrittoio di arte povera pieno di chewing gum appiccicati sotto il piano. Un letto a due piazze con un lenzuolo blu, di raso. Come un improbabile mare che tenta di raggiungere la riva: lo scendiletto bianco a pelo alto. Sara si affaccia alla finestra scrostata della pensione sul mare. Le narici vibranti, la bocca aperta; ha bisogno di respirare quell’aria salata che risveglia sensi e ricordi. Il mare ventoso e impietoso dei dintorni di Tagliacozzo.
Lo aveva voluto portare fino a lì, per una settimana, per inseguire i suoi sogni d’infanzia, e renderlo partecipe di un pezzo di vita in cui lui, ancora, non c’era. Suo nonno era abruzzese, anche se montanaro, in realtà. Infatti a lui il mare non ispirava molta fiducia, e i suoi abitanti. Menti annacquate, lunatiche, incoerenti, emotive. Come la sua moglie calabro-statunitense e il genero sbarcato dalla Sicilia, che lui definiva “terra maledetta”. La nonna – maga c’era, per Sara. C’era per ognuno dei suoi giorni in sette lunghi anni. Poi era inverno, e cominciavano i ricoveri. Ma ogni tanto ritornava. E in qualche modo, c’era. E alla mamma cresceva la pancia e al babbo cadevano i capelli. Il nonno che parlava sempre a un certo punto non parlava più. Ma Sara era fatta di vento e di sole, da bambina; le ombre non la spaventavano. Le mancava un poco il solito pubblico per le sue storie, nessuno sembrava volerle ascoltare più. Ma lei era fatta di sole e di vento, le nubi dell’incertezza le scacciava via, naturalmente. Aveva cominciato a raccontare le sue storie a un pubblico di bambole, prima o poi i grandi sarebbero tornati ad ascoltarle. Ed era arrivata l’estate, la scuola era finita, il caldo era pesante, e come sempre aveva preso tutti 10. Ma anche qui, poteva raccontarlo solo alle sue bambole, che non sapevano dirle “brava”. La pancia della mamma pareva stesse per scoppiare, adesso. Come il suo umore; passava dalle risate alle lacrime nel giro di un minuto. Così la mamma e il babbo la spedirono al mare con gli zii. Dopo un po’ di mesi, al suo ritorno, dopo averla sognata e chiamata ogni notte, lei, la nonna, non c’era più. Al suo posto, una bimba nuova di zecca. Che lei non voleva. Che non sapeva dirle “brava”.
Guardando quelle onde ottuse e scure inseguire la riva pietrosa, le viene in mente un altro ricordo.
Sono su una spiaggia simile, lei ha circa nove anni. I suoi genitori, artisti entrambi, anime nobili, avevano pensato di portare il nonno a trovare i fratelli, in vacanza, visto che lui era ogni giorno più inconsolabile per la perdita della moglie marinara e strega, insostituibile, nella vita sua come in quella di tutti. Lei, nipotina – specchio prediletta, ugualmente inconsolabile se ne stava spesso accucciata come un giovane cane sulle sue ginocchia forti. Aveva i suoi riccioli rossi e lo sguardo leonino, ma il cuore di strega ipersensibile come la sua moglie adorata e misteriosa. In una mattina di sole pallido lei se ne sta accucciata nel suo nido di cenci, ancora adesso si veste con roba larga e svolazzante, forse le sembrano piccoli abbracci di tutti i cari che ha perso; davanti a loro giocano i fratelli del nonno e tutti i figli maschi, a calcetto. Di varie età e capelli, ma identico incarnato, che li identifica come parenti: un rosa gambero lentigginoso e refrattario ai raggi. Il nonno è maresciallo dei carabinieri, maresciallo di fanteria. Alto e forte e rosso e in divisa sembra sempre un principe britannico, ai suoi occhi. I fratelli, uno insegnante e l’altro avvocato, hanno studiato di più, tutti padri e nonni di maschi. Lei, l’unica ragazza, in realtà più maschio di tutti loro messi insieme. E infatti non sono mai riusciti a domarla, né a convincerla ad amare la vita, ancora, senza il pezzo di anima rimasto attaccato alla nonna volata via. A un certo punto del match uno dei ragazzi più giovani si butta a terra platealmente, simulando un fallo. Un istante prima di un’azione da goal da parte della squadra avversaria. È uno dei nipoti dell’avvocato, figlio di avvocato a sua volta. Evidentemente ben allenato alle varie tecniche di truffa. Il bomber fallito della squadra avversaria, suo cugino, decide che quell’affronto non lo può proprio sopportare. Gli abruzzesi sono gente orgogliosa. Trascina per i capelli il falso infortunato in acqua e tra gli insulti in dialetto tenta di affogarlo. Ma con reale, preoccupante intenzione. Bisogna fermarlo. Gli altri uomini tutti si animano verso i due ma come al solito risolve tutto il nonno, sparando in aria un colpo della sua pistola, che sempre tiene con sè. Quel suono terribile ha il potere di spegnere la rabbia e di raffreddare gli animi. Perché anche se è uno che parla parecchio, come lei, del resto, il nonno sa bene che in certe situazioni i discorsi stanno a zero, come si dice. Fatti ci vogliono, fatti.
E il tempo passa, e anche il nonno è un fantasma nei suoi pensieri. E tutti gli altri, di cui non sa più nulla. Si è addirittura comprata una clessidra, che le tiene compagnia nelle sue lunghe ore di lavoro. E le ricorda che il tempo passa. Ogni tanto si diverte a rigirarla e tenta scioccamente di contare i grani d’oro che scorrono dentro il vetro. Una cosa alla “Rain Man”. Scema. Ma Sara ha deciso questo, da un po’, di fare la scema. Lascerà andare il bisogno di controllo su tutto e su tutti, la sua pistola immaginaria. Il vigile pastore abruzzese che è sempre stata, o forse hanno costretto a essere, forte, candido, tranquillo, impassibile e fiero smette di scattare per contare le sue pecore, salvare le anime perse, accudire gli infermi di mente. Facessero un po’ tutti il cazzo che vogliono, tanto non esiste comprensione, né riconoscenza. Il tempo passa, soprattutto per lei. Si sta trasformando, da cane di fattoria a gatto randagio. Rivolge un’occhiata stanca verso il letto. Lo vede dormire, inerme, inconsapevole. Si chiede come abbia potuto pensare, in passato, almeno per un attimo, che lui l’avrebbe strappata ai suoi dèmoni. Scema, davvero. Accosta le persiane e si dirige alla scrivania impataccata. Le è venuta voglia di lavorare un po’. Sara traduce libri; poesie, romanzi, sceneggiature, articoli. Traghetta parole da una cultura all’altra, e i suoi dèmoni li mette a giocare al timone, così. In questi giorni sta traducendo una poetessa neozelandese nata lo stesso giorno, mese e anno di Mia Martini, e come lei morta suicida. Coincidenze che le hanno messo i brividi da subito, a lei che non ha mai creduto alle coincidenze. Si siede nella penombra della stanza accarezzata dall’alba. Aziona la clessidra, ripassa sottovoce la più recente delle sue traduzioni, prima in inglese, poi in italiano.
“The Journey”
Lips of the wind go through my hair, dance around my breasts, linger on my lips;
Feel the fingers of the sun on my shoulders, the tongue of the water go from thighs to toes;
I’ve come from the shoreline, it was biting my cheeks, greedy.
I exchanged you with the world, when you threw me away; it was wise, not useful.
No more red in my bottle, I am empty, now. I will shove off, fill up with some liquid anger.
I will kill my true memories, I’ll miscarry the dreamed ones.
From red to numb. I’ll get to a rock and I’ll be waiting.
For you to come, barefooted, stepping on my eternal pieces.
“Il viaggio”
Labbra di vento nei capelli, intorno ai seni, tra le labbra;
Dita di sole sulla schiena, lingua d’acqua dalle cosce ai piedi;
Vengo dalla sabbia calda, mi mordeva le natiche, curiosa.
Ti ho scambiato col mondo, il giorno in cui mi hai gettata via. E’ stato saggio, ma inutile.
Niente rosso nella mia bottiglia, sono vuota, ora. Prenderò il largo. Mi riempirò di rabbia liquida.
Ucciderò i veri ricordi, abortirò quelli inventati.
Dal rosso al neutro. Raggiungerò uno scoglio e aspetterò.
I tuoi passi nudi, un giorno, cammineranno sui miei frammenti eterni.
Le scappa una lacrima. Rivolge una preghiera muta ai suoi cari e alla Martini e alla poetessa, sicura che siano diventate amiche, adesso. Si alza e si dirige verso il suo amato bollitore. Come canta Biagio, “non è mattina senza un caffè”.