La risata della morte
Mi attendeva una settimana lontano dal mio ufficio e dalle mie aule universitarie. Avevamo messo in piedi un progetto assieme ad altri colleghi di diversi atenei italiani e stranieri e, prima del convegno finale, dovevamo trascorrere gli ultimi sette giorni chiusi in un castello sulle Alpi in cui mettere assieme tutti i dati raccolti. L’università di Trento, promotrice dell’iniziativa, si era fatta carico della nostra permanenza in un bellissimo posto, silenzioso e isolato in cui lavorare senza che nessuno avesse potuto disturbarci. L’antico maniero si trovava a più di un’ora dall’ultimo piccolo villaggio, abitato ormai solamente da pastori di mezz’età.
Le previsioni davano forte maltempo in arrivo e, dato che era gennaio, a quell’altezza era plausibile che fosse arrivata la neve sottoforma di vere e proprie tormente. Mi organizzai per tempo e riempii la mia valigia di roba pesante e di tutto il materiale necessario per terminare il lavoro. Per evitare di trovare pioggia già lungo la strada, decisi di anticipare la mia partenza. Secondo i miei piani avrei raggiunto il paesino la sera prima del raduno, avrei pernottato nella camera di qualche ostello disponibile e il mattino seguente avrei percorso i chilometri restanti di buon’ora. Così fu.
Ero estasiato dal paesaggio, dai fitti boschi, le cime innevate e quelle casette sparse qua e là col tetto spiovente, tutte in legno e pietra
Ero estasiato dal paesaggio, dai fitti boschi, le cime innevate e quelle casette sparse qua e là col tetto spiovente, tutte in legno e pietra. Arrivai al borgo verso le 17 e l’oscurità aveva inghiottito già buona parte delle cose. I comignoli fumanti dietro i vetri delle finestre, le luci gialle e bianche delle case in cui si preparava la cena. La piazza, se così si può chiamare, era grande quanto un cortile condominiale; un negozietto di alimentari, un bar-tabacchi e qualche altra piccola, anonima attività commerciale.
Parcheggiai e scesi dall’auto. Sulla mia sinistra c’era un signore tutto imbacuccato: probabilmente stava ritornando alla propria abitazione. Lo fermai e gli chiesi se sapesse dove avrei potuto trovare una camera per dormire e dove cenare. Rispose con molto garbo che lui e sua moglie avrebbero potuto farlo senza problemi se si fosse trattato di una breve sosta. Gli spiegai cosa avrei dovuto fare e dove sarei dovuto andare il giorno dopo e, saputo che non mi sarei trattenuto a lungo, mi invitò a seguirlo.
Una volta in casa mi fecero posare i bagagli in una piccola stanza del primo piano, quasi contigua alla cucina in cui regnava il profumo caldo e inebriante di qualcosa che stava arrostendo nel camino. Un gatto paffuto e nero si lanciò tra le mie gambe facendo le fusa e la signora fece mille convenevoli, offrendomi una tazza di té caldo di benvenuto. Alle 20 cenammo e tra un piatto e l’altro vollero sapere tutto della mia vita e di cosa fossi venuto a fare in un posto così disperso. Loro invece mi raccontarono di avere dei figli che lavoravano fuori dalla regione, che avevano trascorso la loro esistenza pascolando gli animali e che adesso si godevano la meritata pensione.
Come ogni castello che si rispetti anche quello in cui avrei dovuto abitare si portava dietro il suo bagaglio di leggende più o meno veritiere. Avendo saputo che ero un appassionato di storie popolari, dopo mangiato, seduti vicino al camino, i coniugi si alternarono in racconti molto interessanti. La storia che mi colpì di più fu quella sul signorotto che fece costruire la fortezza. Era un guerrafondaio che non sapeva vivere senza vedere il sangue scorrere ogni giorno. Quando rimaneva tra le mura del castello la servitù e le guardie vivevano nel più completo terrore. Bastava un ordine eseguito male o uno sguardo di troppo per finire imprigionati, torturati ed uccisi.
Non era questa la parte più terribile della leggenda, ma quello che successe in seguito. Stanchi delle vessazioni subite i pochi sopravvissuti alle angherie del principe e di sua moglie, che si dice praticasse riti pagani intrisi di sangue umano, ordirono una vendetta per porre definitivamente fine alle vite di quei due demoni in terra. Lo fecero una notte, in pieno inverno, quando nessuno avrebbe potuto soccorrerli. Le strade non erano percorribili per la copiosa neve caduta e tutto taceva tra le mura del maniero. Un manipolo di uomini si introdusse nel corridoio che portava alle camere dei consorti e armati entrarono nella stanza in cui i due riposavano. Furono trascinati nelle carceri e ripetutamente torturati. Nessuno, né il signore né la moglie, mostrò un minimo di pentimento e anzi incalzavano i ribelli giurando che un giorno si sarebbero vendicati.
Nessuno, né il signore né la moglie, mostrò un minimo di pentimento e anzi incalzavano i ribelli giurando che un giorno si sarebbero vendicati.
Subito dopo l’alba fu deciso che i due dovevano essere decapitati contemporaneamente e i loro corpi squartati affinché nemmeno da morti riuscissero a tornare sulla Terra per mantenere il giuramento. Non proferirono parola quando le lame furono poste sopra le loro teste, pronte a scendere senza pietà. Si guardarono e assieme scoppiarono in una risata folle che rimbombò nella valle sottostante. Tutto fu compiuto e, tagliati i cadaveri, si procedette alla loro cremazione. Poi i presenti decisero di andare via da quel posto maledetto ma le porte che conducevano verso l’uscita erano sbarrate. Le fiamme iniziarono a divorare quella parte del castello e in men che non si dica erano tutti morti carbonizzati. Il male aveva già compiuto la sua vendetta.
La signora guardava fissa le fiamme del focolare mentre finiva di raccontarmi questa vecchia leggenda. Concluse dicendo che se nelle notti d’inverno qualcuno sentiva risuonare il fragore di risa, qualcosa di tremendo stava per accadere. D’improvviso si zittì poi, guardandomi, riprese: “Perché vuole morire così giovane?”. Mi si raggelò il sangue, non capivo il perché di quella domanda fatta senza alcun nesso. Trascorsero alcuni secondi e guardando il marito si misero a ridere, sbeffeggiandomi: “Ti sei spaventato figliolo, eh?!”, e ancora ridacchiarono della mia espressione sbigottita.
Erano due tipi strani, non riuscivi a capire quando erano seri e quando invece scherzavano. Ad ogni modo ridendo con loro esclamai: “Ci sarà il buon Dio a proteggermi, se dovesse succedere qualcosa, come sempre!”. Il gatto che era raggomitolato vicino al camino d’improvviso si alzò e di scatto corse via. Si era fatto tardi e dopo averli ringraziati dissi che era ora di mettermi a dormire dato che il giorno dopo avevo intenzione di partire presto. Mi accompagnarono alla mia camera e la signora disse che mi avrebbe svegliato subito dopo avermi preparato la colazione. Le sorrisi e chiusi la porta.
Fu presto mattina e sentii spostare la coperta delicatamente, la vecchina mi avvertiva che era ora di alzarmi. Iniziavano a cadere soffici fiocchi di neve, mangiai e dopo aver abbracciato sia lei che il marito, assai grato nei loro confronti, mi diressi alla macchina.
“Buona fortuna caro professore”, dissero. Accesi il motore e partii, c’era ancora qualche ora di strada da fare e dovevo sbrigarmi.
Risalivo tra i tornanti stretti quasi a passo d’uomo, la visibilità a causa del vento che sbatteva la neve sul parabrezza era davvero scarsa e il ghiaccio iniziava ad invadere la carreggiata. In lontananza scorsi finalmente l’enorme sagoma del castello. Avvicinandomi ancora notai che la strada si fermava ad alcune centinaia di metri dall’entrata. Avrei dovuto percorrere a piedi un sentiero tra gli alberi con tutte le valigie in mano. Abbozzai e mi avviai velocemente verso l’imponente porta d’ingresso.
Digitai il numero che mi era stato dato, da chiamare una volta arrivato. Rispose un signore che venne ad aprirmi in pochi attimi. Ci presentammo e mi indicò l’ala in cui avrei vissuto a stretto contatto dei miei colleghi per sette giorni. Ero il primo e, per ammazzare il tempo, il custode mi portò in visita per tutta la fortezza. Era gigantesca e si respirava la storia. Ero incantato. Mi fece conoscere anche i due addetti alla cucina, il cuoco e la cameriera che, assieme a lui, dovevano prendersi cura di noi durante la permanenza. Nelle ore successive arrivarono tutti i professori e dopo i saluti e le presentazioni avviammo la prima fase del nostro lavoro, ovvero mettere assieme i lavori sviluppati singolarmente e decidere come procedere con la seconda parte del progetto.
Cenammo e sorseggiammo un caldo caffè nel salone d’onore abbellito da splendidi arazzi e con un camino che prendeva buona parte di una parete. Un’enorme vetrata che dava sullo strapiombo ci faceva godere di un panorama mozzafiato. Quando i lampi si susseguivano nel cielo potevamo vedere i contorni delle altre montagne che ci circondavano a perdita d’occhio. I tuoni si facevano sempre più cupi, un chiaro segno che la perturbazione prevista stava per investirci con tutta la sua forza. Col passare delle ore cominciò a nevicare con sempre maggiore intensità, e ormai avevamo capito che saremmo rimasti isolati nei giorni a venire. Comunicammo però, tramite una chiamata agli uffici preposti, di inviare appena possibile uno spazzaneve per liberare la strada, nel caso ci fosse stata un’emergenza.
Col passare delle ore cominciò a nevicare con sempre maggiore intensità, e ormai avevamo capito che saremmo rimasti isolati nei giorni a venire.
Per intrattenerci, il cuoco e gli altri due inservienti ci raccontarono della leggenda legata al castello. Io feci finta di non saperne nulla e, appoggiato accanto al fuoco, ascoltai le loro parole come tutti gli altri colleghi. Seguitarono nel loro racconto per un’ora circa con dovizia di particolari. Qualcuno dei presenti mostrava l’irrequietezza dovuta alla tensione dell’atteso epilogo della tragica storia. La cameriera ogni tanto alzava gli occhi e cercava i miei, fissandoli in modo strano. Non capivo a cosa era dovuto quel comportamento ma non mi soffermai più di tanto su questo curioso particolare.
Mancavano una manciata di minuti alla mezzanotte quando decisero che si era fatta l’ora di tornare alle camere e dormire per ricaricare le pile in attesa del primo vero giorno di lavoro. Nel pomeriggio avevo avuto l’opportunità di riposare qualche ora e quindi non mi colse, come loro, la stanchezza. Allora dal cellulare selezionai la mia playlist di blues e in leggerissimo sottofondo iniziai ad ascoltarla. Dopo circa mezz’ora avevo raggiunto un idilliaco stato di rilassamento e tutto taceva. Poi, dal silenzio più totale, una sorta di profondo riso, stridulo, acuto, così penetrante che mi sembrò che si fossero perforati i timpani. Proveniva dal corridoio: mi alzai di scatto e mi precipitai alla porta, aprendola.
Non era stata la mia immaginazione a giocarmi un brutto scherzo, erano quasi tutti già fuori a chiedersi cosa fosse stato ad emettere quel suono strano. Dal fondo, una finestra sbatteva e il vento aveva spinto già dentro batuffoli di neve. Corsi a chiuderla e, convinti, che fosse stata quella la causa di tutto, tornammo a dormire. Mi sovvenne un pensiero istantaneo, fulmineo. La vecchia al villaggio aveva parlato della risata che risuonava tra le mura del maniero. Lei l’aveva chiamata “la risata della morte”. Volli convincermi però che come ogni storiella anche questa era una fandonia secolare tramandata dalla gente del posto. Trascorsi le ore che restavano prima del suono della sveglia tra un dormiveglia e qualche sussulto dovuto agli incubi.
Lei l’aveva chiamata “la risata della morte”.
Iniziammo di buonora a metterci sulle carte raccolte e facemmo colazione con latte caldo e biscotti al miele. Il manto nevoso era aumentato di parecchi centimetri e il maltempo non tendeva a smettere. Il custode arrivò nel salone con cassette piene di legna da ardere e ci disse che se avessimo avuto bisogno di aiuto lo avremmo trovato nella stalla, che si trovava proprio vicino al portone d’entrata. Lo ringraziammo e scomparve tra labirintici corridoi.
A gruppetti, con buona lena, assorti nel silenzio, procedevamo con l’elaborazione dei diversi spunti. Lo sfarzoso lampadario illuminava quella stanza che, sebbene fosse giorno, stentava ad essere piena di luce, dato il cielo coperto e la nebbia. Stavo per concludere il secondo capitolo di una delle relazioni quando la corrente saltò e sentimmo da un punto non ben definito, ancora una volta, quello stridio cupo. Balzammo in piedi, qualcuno si ritrasse per lo spavento. Dalle cucine arrivarono anche il cuoco e la cameriera, l’unico assente era il custode. Per assicurarci che non fosse lui ad aver prodotto quel suono ci precipitammo al piano inferiore. Ci volle del tempo per trovare lo stabbio. Chiamavamo a gran voce l’uomo, ma nulla. Il mio collega andò vicino un cumulo di paglia e scoprì il pover’uomo a terra, con un forcone infilzato in pieno petto e gli occhi sbarrati di paura.
Evitammo di far vedere la scena alle signore e coprimmo con un lenzuolo il corpo. I cellulari non avevano campo, il maltempo era davvero troppo forte. Riuscimmo comunque tramite il telefono della dimora a metterci in contatto con la stazione dei carabinieri, spiegammo che si era consumato un omicidio al castello e che non sapevamo chi fosse il colpevole. Risposero di riunirci in un’unica stanza, di non uscire e di sbarrare le porte. Nonostante il tempaccio dissero che avrebbero fatto di tutto per arrivare il prima possibile. Cercai di mantenere la calma, invitai i miei colleghi a tornare al salone e tutti insieme serrammo ogni entrata. L’assassino doveva essere venuto da fuori dato che tutti ci trovavamo nella stessa camera, compresi i due inservienti. In preda al panico qualche collega iniziò a dire che era la maledizione del castello. Quella risata era annunciatrice di morte.
Quella risata era annunciatrice di morte.
Trascorrevano le ore e iniziava a farsi buio. Dai finestroni non scorgevamo arrivare nessuno, avevamo quasi perso le speranze perché anche con i mezzi spazzaneve sarebbe stato difficile raggiungerci. La neve aveva superato i due metri e non accennava a smettere di cadere. C’era da portare altra legna e controllare il contatore della luce, perché quest’ultima seguitava ad andare via con cadenza regolare. Non c’erano volontari, nessuno voleva allontanarsi dal salone e allora decisi che sarei andato personalmente a svolgere questi due compiti. Non era coraggio, ma la forza della disperazione che mi spingeva a farlo. Tra tutti ero l’unico a mantenere un briciolo di lucidità. Procurai una torcia, un coltellaccio da cucina e dissi di chiudere la porta a chiave una volta che fossi uscito.
Come a farlo apposta, appena percorsi alcuni metri saltò nuovamente la corrente e di scatto accesi la lampadina portatile. Le gambe stentavano ad andare avanti, erano rammollite dalla paura. Il vento in quelle antiche mura emetteva un sibilo diabolico. Da un momento all’altro sarebbe potuto piombarmi addosso qualcuno, uccidendomi, senza che me ne fossi nemmeno reso conto. Quando fui sulle scale intento a scendere, dal nulla ritornò quella terribile risata, che mi paralizzò. Ero un pezzo di ghiaccio, i capelli quasi irti, tremavo senza riuscire a smettere. Pochi secondi e tornò la luce.
Respirai profondamente, cercai di riacquisire la calma necessaria e raggiunsi la legnaia. Controllai infine se nel quadro elettrico vi fossero danni, ma non ve ne erano. Con una cassetta di legna tra le mani risalii gli scalini due a due. In un batter d’occhio mi trovai di fronte la porta della sala in cui eravamo accampati fin dal mattino. Bussai ma mi rispose il silenzio, interrotto solo da qualche tuono. Un leggero mugolio dopo qualche minuto mi colpì. Era un flebile lamento. La serratura girò lentamente. Con un gesto involontario feci due passi indietro e impugnai a due mani la lama. La porta emise un cigolio e si aprì piano. Uno dei miei colleghi era aggrappato alla maniglia e si trascinava a forza col busto. Era ricoperto di sangue ed ebbe appena la forza di dirmi una frase sconnessa. “Loro sono la morte. Vai via o la morte prenderà anche te”. Cadde esanime e la testa fece un tonfo secco non appena toccò il tappeto del corridoio.
Provai a farmi coraggio ed entrai. Era una distesa di cadaveri, straziati, molti con la gola tagliata. Mi sentii mancare. Non avevo alcun dubbio, i colpevoli erano i due addetti alla cucina. Gli unici due assenti dalla scena del delitto. Ormai le risate agghiaccianti si susseguivano senza fermarsi e si aggiungeva il mio nome. Arrivavano da punti diversi del maniero. Ero in preda al terrore, mi voltavo continuamente e puntavo il coltello nel nulla. Mi rimaneva una sola via di fuga, tornare al piano inferiore e cercare di aprire il cancello. Una volta arrivato fuori però, sarei morto assiderato e sommerso dall’enorme coltre di neve. Non volevo finire sgozzato e quindi decisi di provare ad uscire e correre sperando che nel frattempo fossero arrivati i soccorsi. Le voci demoniache mi chiamarono ridendo. Stavano arrivando. Erano nel salone ed io avevo di nuovo ripreso a scendere le scale. Erano a pochi metri.
Era una distesa di cadaveri, straziati, molti con la gola tagliata.
Nel buio andavo a tentoni ma giunsi comunque al portone. Li sentivo scendere dietro di me. Da fuori sentii il rumore di un mezzo che si avvicinava e dalle vetrate intravedevo tra gli alberi le luci dei fari. Non sapevo se fossero allucinazioni o se fosse realmente arrivato qualcuno. Ero a pochi centimetri dalla salvezza. Abbassai il maniglione ma un forte colpo alla testa mi fece perdere i sensi.
Quando rinvenni ero sdraiato sui sedili posteriori dello spazzaneve. Un carabiniere stava contattando l’ambulanza e un uomo guidava. Sentivo bruciare il braccio destro, guardai e vidi una ferita sanguinante. Erano riusciti a colpirmi ma ero salvo. I carabinieri mi chiesero cosa fosse successo, provai a spiegargli che due degli inservienti avevano ucciso tutti. Mi ero salvato solo perché non mi trovavo assieme agli altri nel momento in cui avevano dato il via alla strage. Squillò il cellulare, il militare dell’Arma discusse con i colleghi che si erano fermati sul posto a constatare la scena del delitto. Cambiò espressione e non smise più di guardarmi. Non appena chiuse la comunicazione mi chiese quanti fossimo nel castello. Gli risposi che oltre ai tre inservienti, erano presenti altre sei persone, me compreso. Con tono duro disse “Ci sono otto cadaveri”.
Mi ordinò di allungargli le mani e mi ammanettò. Non volevo crederci, mi sembrava tutta una follia e continuavo a dirgli che doveva esserci un errore. Gli ripetevo che erano stati quei due a uccidere tutti.
Nel frattempo riuscivo a scorgere le luci del villaggio e allora mi venne in mente che potevano chiedere ai signori che mi avevano ospitato nei giorni addietro. Loro avrebbero potuto testimoniare che non ero un assassino. Giunti alla piazzetta del paese gli indicai col dito quale era la casa degli anziani coniugi. Il carabiniere e l’altro si guardarono increduli e poi rivolsero il loro sguardo su di me. Non capivo, ero confuso. Continuavo a dirgli “Andiamo lì, saliamo da loro”.
Uno dei due rispose seccamente. “La smetta! In quella casa non ci abita nessuno da vent’anni. Lì dentro c’è stato un omicidio-suicidio. La moglie ha massacrato il marito e poi si è impiccata nel fienile.”
Risi, diaperato, folle. La risata della morte era riuscita ad avere anche me.
Finora ignoravo cosa fosse il terrore: ormai lo so. È come se una mano di ghiaccio si posasse sul cuore. È come se il cuore palpitasse, fino a schiantarsi, in un vuoto abisso.(Oscar Wilde)