A est di Bisanzio (Calabria insolita)
Ha pure il coraggio di guardarmi male, il botolo. La prima volta che gli sono passato davanti mi ha annusato, la seconda ha emesso un gutturale grugnito e la terza mi ha morso un polpaccio. E non è vero che gli ho pestato la coda perché avevo già capito che quello era un tizio infido e ci sono stato ben lontano dalla sua appendice. Ma il botolo tac!, mi ha afferrato la gamba sinistra e grazie a Dio non ha stretto la morsa. Ora mangio il tartufo e sfilo il cucchiaino dalla bocca con gusto e smodato piacere alla faccia del mio assalitore che da gustare ha solamente una ciotola d’acqua. Ben gli sta. Che Dio solo sa che gli ho fatto a questo. Di lì dovevo passare, spazio non ce n’era. La prima volta per pisciare, la seconda per ordinare, la terza non ricordo. Ma che ci sto a perdere tempo dietro a questo cane veneto? A Treviso le strade sono larghe e le bifamiliari verde pisello. Qui siamo in Calabria. Un posto dove i paesi sono punti su un piano cartesiano dove l’ascissa è il mare e l’ordinata la montagna. Dove i grigi stonano e le misure non possono mai essere mezze. Del resto la cultura è una questione prima di tutto morfologica. Sono i territori a fare le persone. Gli uomini credono di modificare il mondo, ma quello che sono, mangiano e dicono lo ha stabilito la terra su cui camminano e il mare che si dipana all’orizzonte. Ma cosa vuoi che ne sappia questo.
Poso il cucchiaino, mi lecco i baffi e volgo lo sguardo verso il castello. La fortezza di Pizzo dà sul mare. Non è l’unica in Calabria. Qui si è sempre fatto prima ad arrivare per mare, l’Italia è lunga e a percorrerla tutta si finisce stanchi e appagati come Annibale che infatti si è fermato a gozzovigliare a Capua e qui non ci è arrivato. Via terra ci sono invece arrivati i Visigoti, gente che dopo aver espugnato Roma con un perentorio zero tre si è un po’ montata la testa e infatti arrivati a Reggio gli spacconi hanno fatto una figuraccia con la Reggina e addio sogni di attraversare lo stretto e raggiungere l’Africa e i suoi granai. Dietrofront. A sentire Carducci hanno pure seppellito il re Alarico sotto il fiume Busento. Poi, come se rompere le palle a tutti deviando un fiume solamente per seppellire un tizio non fosse già abbastanza, hanno minacciato questa brava gente dicendo che un giorno sarebbero pure tornati.
Gioacchino Murat, che hai capito tu di questa terra? Cos’hai pensato in quelle ultime ore rinchiuso nella fortezza di Pizzo Calabro? Tu che per conservare il tuo Regno di Napoli che tanto bene hai governato hai dovuto rinnegare tuo cognato Napoleone. Che nel tentativo di riconquistarlo una tempesta ti ha portato a Pizzo dove ti aspettavano i borbonici e buonanotte ai suonatori. Chi più di te, in quella fortezza che domina uno splendido mare di cristallo, ha imparato come le cose della vita siano vane e oggi il tuo osso sacro poggia sul trono di Napoli mentre domani fa compagnia a tibie e peroni in una fossa comune sotto la chiesa di Pizzo Calabro.
E parimenti le cose vanno per i territori. Solo che come detto la Calabria non ha mezze misure e la sua storia è un po’ come il suo territorio che è montagna tanta, mare tutt’attorno e pianura poca e brulla. L’Italia è nata qui. A Roma si pascevano ancora le pecore in Campidoglio che a Crotone un tizio di nome Pitagora buttava giù due concetti tutt’ora dibattuti. La Calabria è anche la regione più greca d’Italia. Gli occhi delle persone sono quelli di guerrieri e dee dipinti nei crateri del museo di Reggio Calabria. La flemma è quella di coloro che bighellonavano nelle agorà, la saggezza quella invecchiata nelle botti di una storia millenaria, l’orgoglio indomito quello di coloro di cui Orazio ebbe a dire che seppure capti furono comunque e per sempre a loro modo vincitori.
Due volte greca la Calabria, perché ci si piazzarono i bizantini e qui le radici le misero più che altrove. Lo si vede dalla religiosità certamente popolare, ma anche un po’ ortodossa, dalle basiliche della costa ionica, i nomi delle chiese e i bizantinismi di certi vocaboli, le sete pregiate poi famose in tutta Europa. A loro si sono sostituiti in normanni. Il castello di Vibo è normanno fuori e greco dentro, nel senso che ci sono reperti della magna Grecia. Pensate a me, che i greci li adoro e dai normanni racconto in giro di discendere. A Vibo c’è anche una chiesa di nome Madonna dei poveri. Le chiavi te le dà una signora che sbuccia i fagioli e parla un italiano difficoltoso. Però ci tiene a farsi dire che la chiesa è bella e a spiegarti che se la sono messa a posto loro.
Loro chi? Quelli della regione periferica, bislunga, grecanica, un po’ sputttanata da Franza e Spagna. I primi hanno magnato tanto e donato poco, i secondi… i secondi non sono altro che i discendenti di quei Visigoti che hanno spostato fiumi e scassato città. Se ne sono tornati imbigottiti, imbaronati e con una gran voglia di vivere di rendita.
Loro chi? I calabresi. Quelli dimenticati dall’Italia, che ci ha capito poco e provato niente. Quelli che se ne sono dovuti andare per mandare soldi a chi è rimasto e costruire case e cose e chiese. Che poi molte case sono ancora lì, che attendono di essere finite da chissà quanti anni. Scheletri di cemento che magari guardano il mare e sperano che la nave batta bandiera greca o normanna. Astenersi francesi, spagnoli, piemontesi. Tanto non ci capiamo.
Loro come il cameriere che mi chiede, una volta tornato lassù, di parlare bene di questa Calabria. E sorride posato come un funzionario di Bisanzio e orgoglioso come un guerriero di Roberto il Guiscardo. Vai e parla, ma che siano cose belle e niente tristezza. Una cosa che sta a metà tra l’Amleto che chiede a Orazio di raccontare la sua triste storia e il Montale del codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Ma in fin dei conti pure io che ci ho capito di questa terra?
Mi guardo il tramonto da uno dei tanti belvedere di Tropea e penso che i normanni, a sud, finiscono sempre per innamorarsi. Perché la vita è una perenne incompiuta e sempre si vorrebbe quello che non si possiede, è chiaro. Lo penso qui e lo penso a Reggio, mentre guardo la costa sicula dirimpetto e deglutisco un arancino alla ‘nduja. Un cane mi scodinzola attorno. É educato, ospitale, la forma degli occhi leggermente allungata.
Tipico profilo greco, direi.