Lettura n. 26 Le sorelle Lacroix di George Simenon
Simenon è sempre stato un maestro nel disegnare l’atmosfera, nei suoi romanzi mi sono perduta più volte a sentire l’odore di chiuso di stanze abitate da personaggi misteriosi e allo stesso tempo semplici, quotidiani per meglio dire. Anche in questa storia dal sapore angusto il lettore è trasportato in un ambiente familiare denso di mistero e di sospetto. Le protagoniste sono due sorelle, Mathilde e Léopoldine Lacroix, legate fra loro da un rapporto strano, morboso, ricco di allusioni che per lo più restano sospese nel corso della narrazione. Con loro nella vecchia casa e attorno alla grande tavola per la cena, vivono il marito di Mathilde e i due figli: Geneviève e Jacques, e sporadicamente fa ritorno la figlia di Léopoldine, la sgraziata Sophie.
L’abitazione benché grande e disposta su due piani, sembra non poter contenere i movimenti fugaci dei componenti e si contrae come un animale riottoso ad ogni invadente presenza, momentanea, di un estraneo.
Lo stesso Vernes, marito di Mathilde, sembra non essere a proprio agio nell’abitazione e per questa sua riluttanza a partecipare alla vita familiare vive ogni giorno che passa sempre di più relegato nel suo atelier, una stanza posta in cima all’ultimo piano della casa, e scende di rado ai piani bassi , vivendo d’arte e di solitudine.
La convivenza fra i familiari è fatta di silenzi imbarazzanti e sguardi sospettosi, ognuno diffida dell’altro, e quando la giovane Geneviève cade malata gravemente, la situazione sembra peggiorare ogni minuto che passa. Simenon tiene il lettore sospeso per molte pagine, eppure la trama scorre lentamente, aspettiamo che accadano eventi significativi ma pur andando avanti nella lettura, – e ve ne saranno di fatti nuovi che non sto qui a svelarvi- sembra che il mondo dentro la casa delle sorelle Lacroix sia fermo come un orologio dalle lancette rotte sempre sulla stessa ora. Ci si spia, ci si rivela segreti poco alla volta sottovoce, si sussurra, ci si isola sognando di fuggire via, si vive e si muore, tutti calati in una convivenza tossica che Simenon ci fa respirare fin dal principio del racconto. Vorremmo scuoterli gli abitanti della casa, vorremmo entrare lì dentro e dare un urlo, e far tremare le pareti finalmente gridando la verità. Ma quale verità?
Il male ramifica negli animi e si nutre di mancanza di dialogo, soffoca le sorelle Lacroix e soffoca anche il lettore che poco a poco vorrebbe soltanto uscire da quella casa e fuggire il più lontano possibile, se ne avesse la forza, ma la mollezza segreta e il timore del non detto avvolge ogni individuo, incatenandolo alle pagine e alla ripetizione infinita del male se qualcuno non recide il filo che tutto lega.
Vi sono tanti modi per restare uniti all’interno delle relazioni familiari, uno di questi è l’amore, l’altro, a volte più potente, è l’odio.
«La cosa non sfuggiva a Mathilde, ma lei aveva già la sua battaglia da combattere. Aveva sempre avuto bisogno di un’idea fissa, di un’ossessione. Come altri rimpiazzano un amore con un altro amore, lei rimpiazzava un odio con un altro odio.»
Non raggiunge le vette della tensione di altri suoi romanzi- che ho pure amato tantissimo- ma lascia addosso una sensazione vischiosa di malessere, come solo un grande maestro di atmosfera sa fare.