La rosa che non colsi
Sono Valentina.
Nata il 14 febbraio da genitori con scarsa fantasia, ma con parecchio amore. Frugo nei ricordi da insegnante di quasi venti anni fa. Ero una sposa non freschissima ma quasi nuova, un usato sicuro, insomma; neomamma orgogliosa, ancora ignara dello tsunami depressione che stava per investirmi, nel periodo keratin-blonde: capelli a bucatino biondo oro, che raccoglievo in una lunga coda.
Avevo una quinta che adoravo. Uno di loro era un ripetente, di quasi 14 anni, affetto da grave autismo. Dolcissimo, altissimo, robusto. Un gigante buono che vegliava sui compagni e sulle maestre. Quando però gli prendevano “i cinque minuti”, per un suono sgradevole o l’espressione in uno sguardo che lo disturbava, una finestra che sbatteva, un qualsiasi evento imprevedibile, si trasformava in uno yeti. Iniziava a urlare, ad agitarsi e si attaccava alla testa di qualcuno, tirandogli i capelli. Una volta lo aveva fatto anche con la mia testa e ci erano voluti tre compagni e tutta la mia pazienza per districarlo dai rovi. Per questo, anche, li avevo fatti allisciare e raccolti a coda di pony. Almeno, in caso, mi avrebbe tirato la coda come un batacchio di campana, facendomi meno male. La sua insegnante di sostegno non riusciva ad arginarlo fisicamente, esile, introversa e snob com’era, approdata dalle superiori con l’atteggiamento da Madama Butterfly. Dalla dirigenza decisero quindi di affiancarle l’unico AEC (Assistente Educativo Culturale) uomo, e che uomo. Soprattutto nei momenti in cui il ragazzo rimaneva solo, perché ovviamente il sostegno non copre tutte le ore didattiche. Vieni abbandonata al tuo destino, per ore, con una classe di bestie più i problematici, o docente dalle lunghe ferie e dall’orario corto, che tanto ti invidiano, tutti. Che cazzo ne sanno, loro, tanto. La gente vede sempre quello che gli fa comodo. Ripeto, che uomo. Un giovane tosco della provincia di Siena. Alto due metri, occhio verde sottobosco, accento dolce e suadente, colto, laureato in Pedagogia, musico, studiava batteria jazz in una prestigiosa accademia romana, magicamente single. Lui. Le mie colleghe, dall’ultima dei collaboratori all’ape regina in carica, tutte infoiate, ma lui era stato assegnato a me, alla mia classe sgarrupata, per impedire che il giovane alunno ci facesse fuori tutti in uno dei suoi momenti “no”.
Questo collega strepitoso si era inventato, grazie alle sue competenze e sensibilità, un metodo per comunicare col nostro problematico, che non parlava ma conosceva il linguaggio dei segni dei non udenti. La sua infallibile mamma lo aveva capito e si era documentata; una ragazza meravigliosa. Claudio il batterista, questo il nome dell’AEC, comunicava col ragazzo con la musica. Gli aveva insegnato a usare le spazzole, che fanno meno chiasso delle bacchette, e quando stavano per arrivare i “cinque minuti”, che lui con le sue antenne scorpioniche avvertiva al volo, gli si metteva davanti, più alto di una spanna, gli afferrava la testa e metteva le fronti a contatto, occhi negli occhi, senza parlare. E lo calmava, cavolo, lo calmava. Un genio. Con me, che i cinque minuti ce li avevo sempre, ma introiettati come un vulcano, Claudio comunicava in modo telepatico. Se avevo bisogno di supporto tecnico quando non partiva il registratore, o se dovevo lasciare la classe per pisciare o recuperare il maltolto da qualche collega, bastava che alzassi il mio sguardo di velluto scuro verso i suoi laghi torbidi, e senza bisogno di spiegare prendeva il mio posto in cattedra o alla lavagna e continuava, dall’esatto punto in cui avevo lasciato io. La collega di sostegno la calcolava come lo zero che era; per lui era trasparente, malgrado gli abiti griffati e il profumo estenuante con cui si presentava. Come eravamo belli, io e lui, in giro per i corridoi: alti, giovani, scenografici. La maestra colorata col registratore anni 80 e gli stivaloni, e il maestro nero con la coda e le bacchette nella tasca posteriore dei jeans. Genitori e bimbi completamente pazzi di noi due; gli altri “rosicavano”, come si dice a Bolzano. Persino i prof.
Ricordo l’episodio in cui la mia classe era andata al cinema insieme ai “grandi” delle medie. Al ritorno, prima di rientrare nelle aule, noi docenti decidiamo di tenerli un po’ a scatenarsi in giardino. I ragazzini tutti, piccoli e grandi, al galoppo sul brecciolino e noi insegnanti in formazione gerarchica a fare la guardia. Gli anziani prof sulle uniche due seggiole sbilenche , io, Claudio e lo yeti sul muretto. A un certo punto, uno dei miei mi crolla rovinosamente davanti; scatto come un pastore abruzzese e abbaio:
“Ma correte piano, per la miseria!”.
La mummia sulla sedia si anima per apostrofarmi.
“Ma che significa ‘correte piano’, è assurdo!”
Nel sentire quella voce aspra si anima anche lo yeti e mi prende per la coda. Claudio, che se ne stava a provare un ritmo con le bacchette sui sassi, se ne accorge e lo placca fulmineo, gli stacca le mani dal cordino d’oro e mi stringe le spalle per un secondo in segno di conforto, con le sue belle mani affusolate e calde. L’alunno incidentato intanto si alza, ha sentito tutto, e incurante del ginocchio sanguinolento e del jeans strappato risponde al trombone molesto che aveva osato irridere la sua dea:
“Guarda che io ho capito benissimo!”,
lanciandogli in faccia uno sguardo di sfida blu. Per questo amo i bambini. Per il loro amore incondizionato e coraggioso, come quello dei cani. Anche se sono faticosi e pretendono attenzioni continue; come i cani. Il bimbo poi si rivolge a me, piagnucolante:
“Scusa, maestra. Starò più attento, promesso!”
La mummia torna a tacere, lo yeti si calma e io mi porto l’alunno in infermeria per medicare il ginocchio. Con un’occhiata affido a Claudio il resto della classe. Con un sorriso mi rassicura. Me lo ricordo bene, il suo sorriso. Come si è spento quando un giorno una collega brutta e insopportabile come una zanzara mi piomba in classe:
“E’ quasi Natale, bionda, dove te lo porti il maritone sexy? In crociera sul Nilo?”
“Ma una padellata de cazzi tuoi, cafona, no?” penso. Allora ero giovane e timida, ora glielo direi a voce stentorea. Ma da quel giorno Claudio si ritirò in buon ordine; una col maritone sexy era veramente fuori portata.
Evitava gli sguardi dolci e i sorrisi e gli abbracci consolatori ed io mi sentivo orfana, senza sapere bene perché. Invece ora lo so. Oltre ad essere bello, educato e gentile, mi capiva al volo. Avevamo un rapporto speciale, io e lui. Ma non abbastanza da farci entrare nella tempesta. Che di lì a poco mi travolse: i due anni di dolore rinnegato per la perdita improvvisa del mio adorato babbo mi scoppiarono tutti insieme nell’anima, risultando in una bella depressione maggiore, seguita da terapia psicotropa e astensione forzata dal lavoro. Il dolore va riconosciuto, accolto, sfogato. Mai ignorarlo o diventa un mostro incontrollabile. Mesi e mesi di calvario dopo, al mio rientro in servizio vengo a sapere che Claudio è stato assegnato ad un altro team docente, con la scusa che il suo assistito aveva finito il ciclo della scuola primaria. Non sarebbe più stato “mio” neanche come collega… destinata a scambiare sguardi bassi in corridoio e a vederlo tacchinare le supplenti giovani e libere in cerca di una fidanzata. Eravamo troppo, insieme, io e lui, e non si poteva sopportare. Gli mando il mio amore ora, qualunque uomo sia diventato, e lo mando anche ai miei alunni dell’epoca, al mio yeti dolce e alla sua mamma fatina. Spero che i sogni di tutti loro siano diventati una realtà, adesso. Io non ho mai smesso di inseguire i miei, di sogni.
Anche se corro piano.