La risposta che cercavo
Tutti cercano risposte su sé stessi: cosa sono, cosa vorrebbero essere e infine cosa saranno realmente. C’è chi ci riesce abbastanza velocemente, chi ci mette più tempo e chi viaggia una vita intera in autostop da un’esperienza all’altra senza trovare ciò che sperava. Mi ci sono ritrovato anche io a vagabondare per tutti questi anni e continuo a farlo ancora adesso.
Alla fine diventi ciò che fai ed io ero diventato uno dei tanti vagabondi che si illudono che il domani sia il giorno giusto per rivoltare la tua esistenza e darle definitivamente un senso. Un giorno ero un operaio che timbrava il cartellino alle 17, un altro ero un portalettere disperso nei tanti labirinti di cemento del mondo, poi ancora un netturbino che, su un camion nauseabondo, raccoglieva la spazzatura ogni notte.
Alla fine diventi ciò che fai
Nessuna di queste cose mi dava soddisfazione e, a parte racimolare qualche soldo, non è che amassi quello che stavo facendo. Quando mi stufavo riprendevo la mia roba e cambiavo. Pagavo un biglietto d’autobus per questa o quella città, cercavo un passaggio su qualche strada dissestata e mi mettevo tutto alle spalle. Non mi piace il mondo in cui vivo, avrei preferito vivere in un’altra epoca. Questa fretta, questo frustrante bisogno di apparire non fanno per me. Per questo sono sempre con le valigie in mano, nessuno vuole legami duraturi, i rapporti si avariano velocemente, se in te non vedono un’occasione da sfruttare ti scaricano tra i rifiuti. I sentimenti sono buste della spesa usa e getta, oggi sei nel loro cuore, domani chi lo sa.
Questa è la vera ragione per cui non rimango in nessun luogo in particolare, cerco di trovare me stesso alla sosta seguente. Sono consapevole di vivere in un’illusione perenne ma in realtà ciò che mi tiene in vita è proprio l’utopia di trovare una risposta prima o poi. La zavorra dell’apparire preferisco non portarla, quel sembrare ciò che non si è. Giro alla larga dall’ostentazione, sono un tipo strano, non lego mai con nessuno ovunque mi fermi. Sono un lupo solitario, me lo ha ripetuto perfino mia madre fin da quando ero piccolo. Quelle poche persone a cui ho lasciato qualche brandello di me sono gli ultimi, quelli che sono per come li vedi. Né più, né meno.
ciò che mi tiene in vita è proprio l’utopia di trovare una risposta prima o poi.
L’unico a cui ero rimasto particolarmente legato nella mia famiglia era uno dei miei fratelli. Quando era un neonato rischiò di morirmi tra le mani. Lo strinsi forte e pregai Dio di non lasciarlo andare. Se non sbaglio fu l’unica volta che mi diede ascolto. Beh, meglio di niente. Detto questo, mio fratello al contrario di me era un affermato uomo d’affari e mi aveva pregato tantissime volte di andare a lavorare per lui. A me quel contorno di ricchi magnati non era mai piaciuto. Se capitava di passare dove abitava lo andavo a cercare, vivevo qualche giorno da lui, ma finivo sempre con l’andarmene all’improvviso, quando il livello di sopportazione di quell’ammasso di signori fintamente perfetti superava il limite.
Che si fotta questa società, non voglio averci a che fare, ripetevo a qualche morto di fame che divideva con me un piumone sudicio e bucato sotto qualche portico.
Amico, forse questi nuovi politici …
Che si fottano anche loro, controbattevo.
Avevo imparato a contare solo su me stesso, sulle mie forze, finché non mi avrebbero abbandonato anch’esse. La risposta era più in là, oltre la tabella che indicava una nuova città, una nuova regione, un nuovo stato. Erano ormai anni che mi cercavo senza trovarmi e sul groppone, oltre il peso dei bagagli, accumulavo le rughe, i capelli che si imbiancavano, la pelle che appassiva, gli acciacchi alle ossa che si moltiplicavano.
Le auto si caricavano un vecchio matto che raccontava di esperienze avute e di esperienze che lo stavano aspettando oltre l’orizzonte che si stagliava subito dopo il parabrezza.
Questa strana gente che non ti guarda nemmeno in faccia, tutti appiccicati a quei dannati marchingegni tecnologici che non li fanno nemmeno parlare. Ero contento di non far parte di questa comunità di non viventi. Beh sì, preferivo vivere a modo mio piuttosto che emulare miliardi di automi riprodotti in serie, tutti coi loro bei vestitini, col loro champagne da sbocciare, col loro sorriso finto da attaccarsi al volto perché “tutti gli altri ridono e io non posso fare altrimenti.”
Assolutamente no, mi tenevo stretti i miei sentimenti, le mie emozioni. Ai bordi del mondo c’è un sottobosco dove quelli come me si trovano bene. Nella penombra a vivere coi matti, con i barboni, coi maledetti, con chi ha voluto brillare per un secondo di luce propria e non vivere per anni di luce riflessa. Ho imparato a trovarmi a mio agio quaggiù, brancolando nel buio, muovendomi a tentoni, cercando l’unica risposta a cui non sono ancora riuscito a giungere.
Una bambina un giorno si avvicinò e mi chiese: Chi sei?. Le dissi di non saperlo ancora, che stavo cercando di capirlo perché fino a quel momento tutto quello che avevo fatto e le situazioni in cui mi ero trovato non mi avevano dato delle risposte sufficientemente adeguate. Eppure di cose ne avevo fatte parecchie, ma non erano bastate. Sapevo che alla fine avrei anche potuto ricevere una risposta negativa ma l’importante era cercarla innanzitutto.
Presi un foglio di carta, un pastello ed iniziai a disegnare quel tenero volto felice, per riuscire a ricordare quei minuti in cui avevo creduto di trovare quello che mi sfuggiva da sempre. Forse era la mia felicità, che cercavo da così tanto tempo. Glielo regalai e baciandomi sulla guancia quella dolce bimba se ne andò via e con essa anche quel vacillante attimo di chiarezza in cui le mie domande si erano dissolte come per magia. Allora ripresi tutta la mia roba e provai ad inseguire quello che mi era mancato in tutta la vita, ma girai invano. Tutto tornò come prima.
Vagando, disperatamente vagando alla ricerca della risposta perduta, ostinatamente cercata, per pochi secondi trovata.
Cosa siamo in fondo?
Un’accozzaglia di storie vissute, masticate, digerite e cagate, una dietro l’altra. Tutto qui, nient’altro.