Fermarsi
Fermarsi è determinante. Di qualunque cosa si parli. Di lavoro, di vacanze, di litigi, di camminate, di condivisione costante di cose, case, strade e vite.
C’è un momento in cui la nostra solitudine innata (ché soli nasciamo e soli moriamo, anche ci fosse un’intera città accanto a noi) precede la socialità nella quale veniamo abbeverati sin dal primo vagito. Bisogna fermarsi e restare soli. Per capire, per capirsi, per metabolizzare un lutto, per metabolizzare una grazia ricevuta. Fermarsi prepara ad un profondo incontro, quello con noi stessi. Un incontro, per quanto apparentemente scontato, raro. Stare con sé è di una fatica immane, ché non conoscendoci viviamo lo stesso imbarazzo del breve lunghissimo viaggio con un estraneo dentro un ascensore. E’ esattamente questo il rapporto che abbiamo col nostro sé.
Fermarsi prepara ad un profondo incontro, quello con noi stessi
E questo probabilmente perché il fermarsi e stare, presuppone un confronto tra il nostro vero sé, e l’”io” che siamo diventati. E’ come quando si invita qualcuno a restare, e da semplici ospiti, col tempo, diventano proprietari della nostra casa, delle nostre cose più intime, senza che ce ne accorgiamo, senza che si possa più fare nulla. Quanto terrore c’è nel silenzio, nel fermarsi, nello spegnere il cellulare, prendere un libro o semplicemente fermarsi a guardare il mare?! Perché non ci vogliamo affrontare?! Quanto siamo veramente consapevoli di quello che facciamo alla nostra anima se quando è il momento di andarci a rapporto, ci ammutiniamo per non essere scoperti?! E quanto salvifico sarebbe essere scoperti se questo equivarrebbe e scrostare ogni sovrastruttura incancrenita e ripulirci dal futile, concentrandoci sulla nostra missione in questo mondo?! E quale fascinazione subiamo per cedere alla finta necessità di un rendimento sociale standard, piuttosto che perdersi ognuno, liberamente, in una vocazione propria e non indotta?! Perché assumiamo la missione altrui come nostra, cosa ci spinge a simulare, voler somigliare a qualcuno, voler essere qualcosa di diverso da ciò che siamo?!
Quanto terrore c’è nel silenzio
Perché non ci stiamo bene, non ci vogliamo bene, non ci discipliniamo abbastanza, non ci perdoniamo abbastanza?! In queste domande c’è un cruccio: è necessario condurre una vita che non ci riguarda, assecondando le richieste sociali, piuttosto che ribellarsi a paradigmi imposti? E quando ci si sveglia e si capisce che siamo in una vita che non ci appartiene? E ci riusciamo davvero a svegliare tutti o solo si vive nel disagio perenne senza capire di che si tratti perché nel frattempo non abbiamo acquisito gli strumenti per decodificare il malessere, analizzarlo e guarirlo? Non ricordo di aver incontrato qualcuno, in questa mia vita, completamente soddisfatto di sé, delle sue scelte, della propria destinazione; e chi lo è, è perché ha da dimostrarsi vincente, realizzato, centrato. Ma l’anima? L’anima? Le bugie agli altri non costano molto, ma le bugie a se stessi fanno implodere il naturale fluire della vita, creando macerie su macerie ed esseri umani sempre più bisognosi di aiuto, ma talmente pieni di sé (di “io”) da non riconoscerlo fino a soffocare dentro la propria autocelebrazione.
Non ricordo di aver incontrato qualcuno, in questa mia vita, completamente soddisfatto di sé
L’ego reso ipertrofico da modelli comportamentali e performanti cresce a dismisura e ci impone tutto, dai gusti al pensiero di massa, dalla volontà ad un generale livellamento qualitativo. Che noi non si sia questo qualcuno lo sa. Qualcuno lo dice rimanendo inascoltato. Qualcuno lo suggerisce sempre: fermatevi, fermiamoci. Ma noi si ha paura di noi. Del confronto con noi. E rimaniamo i più crudeli assassini del nostro potenziale umano, che se assecondato fino in fondo ci renderebbe felici. Ci renderebbe unici e non lo stampo plastificato gli uni degli altri. Ma noi non vogliamo essere felici. Vogliamo solo pretenderlo. E non sappiamo chi siamo, perché non ci fermiamo mai.