Sympathy for the Devil ha sessant’anni
Quarant’anni sono tanti, praticamente un pezzo di vita, soprattutto in una certa fase dell’età, quella in cui avvengono profondi cambiamenti. Io ero una ragazzina, un po’ ribelle, un po’ sognatrice, appassionata di musica e di vita allegra. Così appena seppi dell’evento, anzi l’Evento, con la maiuscola, in programma a Napoli, feci carte false per poter partecipare.
Non ho ricordi molto nitidi, della compagnia, della sequenza dei fatti, del tempo, ma ricordo molto bene come ero vestita, e anche che faceva caldissimo. Portavo un pantalone larghissimo a zampa color arancio e una canotta a righe mille colori, i capelli lunghi racchiusi in una coda di cavallo con un foulard arancione che mi scendeva lungo la schiena. Strano come certi dettagli restino nella memoria e altri sbiadiscano col tempo. C’era gente che era partita la mattina presto, ragazzi in comitiva che venivano da fuori città, con ogni mezzo utilizzabile, sfidando il caldo torrido di una giornata di luglio. L’Evento ebbe una grande risonanza in tutta Italia.
Era il 17 luglio 1982, l’Italia aveva portato a casa la gioia febbrile della vittoria ai mondiali in Spagna, e Mick Jagger arrivò sul palco con la maglia di Paolo Rossi, capocannoniere dai gol da sogno per tutti noi italiani. E questo dettaglio già la diceva lunga sulla vivacità assoluta del capo della band.
Gianni Minà aveva chiesto ai mitici come mai per il tour in Italia avessero scelto esclusivamente Torino e Napoli tralasciando ad esempio la capitale e altre città, la loro risposta fu che Torino era stata scelta per essere la capitale d’Italia e Napoli perché era la capitale del Regno delle Due Sicilie.
La scaletta del concerto fu tutta impostata sulle basi degli ultimi tre dischi del gruppo, partì alle ore 21, dopo che la giornata era trascorsa fra qualche sirena di ambulanza e qualcuno svenuto per un malessere dall’interno del campo. Lo Stadio San Paolo era gremito, sull’erba avevano installato delle docce e Mick gettò dell’acqua per rinfrescare il pubblico assiepato e accaldato.
Iniziarono con Under my thumb, poi non so come, o forse davvero non ricordo, il tempo volò tutto cantando e ballando come forsennati dal campo alle tribune alle curve. Energia pura e un sogno da vivere. Come poteva quella ragazzina non correre sapendo che i mitici, seppur con un componente fondamentale venuto a mancare, tornavano in Italia questa volta con una sola data e a Milano?
Ebbene sì c’è andata all’appuntamento con i vecchietti ottantenni, come se fosse passata attraverso uno Stargate, tempo e spazio, eccola lì insieme a personaggi strani, donne sessantenni con outfit da figlie dei fiori e uomini panciuti con magliette dove una lingua rossa si anima come un animale mossa dal ventre. L’attesa è lunga e fa caldo, la folla fa un po’ paura, e lo spettro del covid gira ancora ma appena partono le prime note, si ode un boato, tutti sono in piedi, c’è elettricità nell’aria. La ragazzina ha le lacrime agli occhi, la musica nei piedi, e i ricordi nella testa.
Sulle note di Miss you le viene tutta la vita davanti, l’odore della sua stanza, il freddo della casa, i sogni, il coraggio, le incertezze e la speranza che in una canzone possa trovare le risposte, ma la musica come la letteratura e l’arte non danno mai risposte, piuttosto amplificano le domande, e ti parlano sempre anche un po’ di te.
Sixty tour, nella sera del solstizio d’estate, si festeggiano i sessant’anni di carriera dei mitici, unica data in Italia, siamo in sessantamila a San Siro, credo ci siano diverse generazioni e questo mi piace. Mick apre con un ricordo a Charlie Watts e ci fa commuovere tutti poi ci sveglia saltando sul palco e tu ti chiedi se hai capito male l’età che ha oggi.
Sfiliamo via sudati e felici sulle note del finale
I Can’t Get No Satisfaction,