PL vs PC = Pensiero Lineare e Pensiero Contorto
Stavolta faccio un po’ la prof e illustro le mie tesi psicofilosofiche a suon di ricordi, la cui assurdità e verità mi limito semplicemente a romanzare, senza inventarmi niente. Perchè la verità supera la fantasia, sempre.
La vita è un tipo davvero originale.
Quello che ho definito con presunzione da neurolinguista PL è il cosiddetto Pensiero Lineare, che ritengo appartenere a un esiguo gruppo di persone, i bimbi sotto gli 11 anni, i folli e gli artisti puri. È, in sostanza, lo sguardo oggettivo e obiettivo sulla realtà, libero da giudizi, condizionamenti e dietrologie di qualsiasi genere. Suo opposto e non complementare, il PC, ossia Pensiero Contorto, in sostanza il comune pensare del resto dell’umanità. Quello per cui il mondo va male, per cui esistono buona parte delle depressioni e dei suicidi. Evviva evviva.
Cominciamo col PL e con le esperienze in classe, quindi i ricordi più antichi. Momento catartico di circle time con i bambini e la maestra, la sottoscritta, che ha sempre amato sedersi in mezzo a loro o accanto, mai in cattedra. Sulla cattedra appoggiavo il megastereo alla Spike Lee per le canzoni in inglese, semmai.
“Maestra, ma è vero che da bambina tu cantavi in un gruppo?”
Perché per loro se non sei la maestra o la mamma o la nonna sei una bambina.
“Sì, ho fatto tanti lavori per pagarmi i miei viaggi. Ma non ero una bambina, ero una ragazza, facevo l’università”.
“E che cantavi?”
“Diciamo un po’ di tutto. Facevo i cori e suonavo le percussioni, quando serviva. Il cantante vero, Marco, suonava la chitarra, pure. E litigavamo sempre perchè aveva una brutta pronuncia in inglese e io lo correggevo. E insistevo sulla scelta delle canzoni da cantare, e avevo ragione ma lui non lo voleva ammettere”.Rido.
“Ma erano canzoni famose?”
“Oh sì, molto famose, come questa del video che vi ho messo ora, degli Spandau Ballet. Alcune erano originali di Marco, invece”.
“Ah che bella, e l’avevi scelta tu?”
“Sì, perchè ero innamorata di uno di quel gruppo. Indovinate quale…”
“Il cantante, perchè c’ha la vociona?”
“Tony? No, no…”
“Lo so io, quello con gli occhi azzurri azzurri!”
“Martin, carino, sì… ma non è lui!”
“Io lo so… È quello che suona la tromba, quello col ciuffo e gli anelli di ferro!”
“E bravo Danielino! E ha pure il naso a pinocchietto, come te… e non è una tromba, quella, è un sassofono. Lui si chiama Steve. Steve Norman. Ma stai tranquillo, Danielino, quando cresci la maestra sposa te, che sei l’unico che la capisce!”
E lui, preoccupatissimo:
“… ma a me mi piace il calcio, non la musica”.
E che non lo so, vive con la maglietta di Totti da Natale a Pasqua…
“Vabbè allora ci facciamo due televisioni, tu ti guardi le partite e io i concerti!”
Mi regala un sorrisone. La felicità è una piccola cosa, dice Trilussa.
Ed è proprio durante i preparativi di una recita di Natale, che accade quest’altro episodio di pensiero lineare purissimo. Le colleghe della classe parallela alla mia, una seconda, le “classiche”, assoldano il maestro di piffero per insegnare ai pargoli i canti tradizionali. Meno male, non gli impongono il costume da zampognaro. Io e la collega di classe, le “rock”, ci ricordiamo che una collega di un altro istituto frequenta da anni un corso di danze etniche e tribali, tanto devotamente da essersi fidanzata col percussionista camerunense. Decidiamo di assoldare lui per una rappresentazione di danze tradizionali del suo Paese. Lo facciamo arrivare col costume tipico e gli strumenti; un tripudio di colori per un metro e novanta di ragazzo. Assegna a noi maestre un tamburo a testa e ci posizioniamo ai suoi piedi, io, collega di classe e collega consorte, inutili come palme nane ma indubbiamente scenografiche. I bambini, pazzi di gioia ed eccitati, tanto da fare casino e risultare ingestibili, alle prove. Il povero Pierre tenta la carta della simpatia, per recuperare l’attenzione:
“Ohi, ragazzi, state facendo troppo chiasso e ora sono incavolato nero!”
A questo punto uno scricciolo della mia classe, ovviamente, alza la mano, scatta in piedi, scavalca due compagni che si azzuffano in terra e punta dritto il dito al povero Pierre:
“No, maestro, tu non sei nero, tu sei marrone!”
Film a scuola con colleghi e alunni, piccoli e grandi. Bimba di undici anni, nel mezzo di una scena simil romantica mi tira la maglia e mi domanda, seria:
“Maestra, come si fa a capire se un ragazzo ti ama?”
“Cavoli, che responsabilità”.
Rifletto. Qui ci vuole sintesi, precisione… Ecco, ci sono. Baricco corre in mio aiuto. Le aggiusto la frangetta e rispondo:
“Se sa aspettarti, ti ama”.
Collega femmina, ha ascoltato tutto, al mio fianco, perché noi siamo sempre in due, come i carabinieri. Approva su tutta la linea:
“Giusto, brava!”
Collega maschio nonché prof chiarissimo dei ragazzi di secondaria, custode esemplare del Pensiero Contorto; ha sentito tutto e si sente in diritto/dovere di fare sfoggio della genialità di genere. Si rivolge alla piccola, attonita:
“Eh sì, sei come una specie di autobus e lui ti aspetta”.
Battutona, argh. Non lo ritengo degno neanche di uno sguardo di disgusto. Torno alla mia interlocutrice e ribadisco:
“Se sa aspettarti, ti ama”.
Passiamo alla fase di maestra bibliotecaria. Sempre in epoca prepandemica. Ora i bambini vengono per i laboratori e il prestito libri in piccoli gruppi. Bimbetta bionda come un angelo e sveglia come un furetto mi intercetta mentre tolgo le orecchie alle pagine di uno dei testi tornati dal prestito.
“Maestra, anzi no, signora, ti ho riportato un libro della biblioteca!”
“Grazie, tesoro. Ma perché mi hai chiamato signora ?”
“Perché la maestra di italiano ci ha sgridato. Ha detto che siccome tu ci aiuti solo a leggere i libri e a disegnare non dobbiamo chiamarti così”.
Eccolo qui, il Pensiero Contorto, che tenta di fare presa sulle giovani menti innocenti. Ma si può essere più idioti, penso. Scelgo di mantenere un tono di leggerezza:
“Mmmmh… ma signora è un po’ troppo da vecchia, però…”
“Infatti, allora come ti devo chiamare?”
“Dunque visto che quest’anno vi leggo le fiabe di Perrault puoi chiamarmi principessa”…
“Siii!”
Ormai siamo completamente complici. La congedo con un cenno della mano:
“Ora torna pure in classe, piccola… porta i miei saluti alle maestre e agli altri sudditi!”
“Va bene, Maestà”.
Si allontana saltellando. Un raggio di sole le incorona la fronte. Che il sole la protegga dai draghi dell’ignoranza. Il giorno dopo ritorna e mi trova immersa nella pittura di quinte teatrali. Osserva divertita le mie mani pezzate di mille colori e attacca:
“Ma tu sei sposata, principessa?”
“Alle principesse devi dare del voi, piccola!”
“Ah scusate, Voi siete sposata, Principessa?”
“Sì”
“E perché non avete il cerchietto d’oro come mamma mia?”
“I reali non portano la fede; si chiama così, quel cerchietto… è la tradizione. Vale anche per la corona, che indossano solo durante le cerimonie”.
Sorrido osservando il suo musino attento.
“Ah, ok…”
Ma lei è decisa a vincere, e rilancia:
“Ma le principesse c’hanno la gonna lunga e i tacchi, voi state sempre coi jeans e gli stivali!”
“Perché sono più comodi per andare a cavallo!”
“Aaaah… vero… però con la gonna e i tacchi siete più principessa!”
Sandrino, è in realtà un pupone ben piazzato di dieci anni alto quanto me:
“Maestra, tu una volta ci hai detto che i capi romani e greci sceglievano i soldati dalla faccia. Che quelli più forti avevano il naso a punta”
“Esatto, e il volto definito ‘a stella’, con le mascelle squadrate e il mento appuntito. Secondo gli antichi erano le caratteristiche fisiche del dio della guerra, Marte”.
“Beh, io c’ho il naso a patata, Stefano a punta, (il suo compagno di banco, una storia di amore-odio che dura da tre anni), ma quando facciamo a botte io vinco sempre!”
Guardo in faccia il guerriero e rispondo:
“Magari voi siete un’eccezione… Io ho il naso a punta, vuoi combattere con me e vedere se perdi?”
Ci pensa un attimo e poi fa:
“No, maestra. Tu sei una femmina. Con le femmine non si combatte”.
“Maestra, cosa ci vuole per essere amici?”
Sempre il mio guerriero in un momento riflessivo.
“Mmmmh, forse bisogna somigliarsi molto, cioè avere molti gusti in comune, stima e rispetto reciproci… ma anche avere qualcosa da insegnare all’altro che l’altro non ha. Per farlo incuriosire. E voglia di stare vicini. Ha una chimica delicata, l’amicizia.”
“E per essere innamorati?”
“Direi le stesse cose. Forse, in più, bisogna piacersi fisicamente”.
“E allora, con tutte queste cose da avere… come si fa a dire sempre ‘ho tanti amici’, oppure ‘sono innamorato’… è una bugia!”
“Diciamo, piuttosto, un’illusione. Spesso. Ma è bello lo stesso pensarci”…
“Macché, è una fregatura! Preferisco come fanno gli animali. Loro non hanno amici e si mettono insieme solo per fare i figli, almeno non li frega nessuno, così!”
“Sto bene a parlare con te, maestra. Perchè sei strana… hai gli occhi e i capelli da femmina, la voce bellissima, però ti vesti da maschio. E dici pure le parolacce!”
“E quando mai ho detto le parolacce?!?”
“Ieri, quando l’altra maestra è uscita dalla classe, sei diventata tutta rossa e hai detto piano ‘sta stronza!’ Ma io ti ho sentito!”
Ci credo, penso, aveva definito i ”The Cure’ pagliacci…
“Beh, sei fortunato. A casa urlo e divento verde. Mio figlio mi chiama ‘Fiona”
“Vedi che sei strana ,allora?”
Mi fa l’occhiolino. È cotto, il mio guerriero. Ho finalmente trovato marito. Evviva, evviva.