Furto 38 – Il mellino
Il quinto dito del piede si chiama anche mellino.
L’ho scoperto molti anni fa, non ricordo neanche il perché.
Siamo in cinque in sala d’attesa, cinque come le dita della mano, e le dita del piede, che strana la vita.
Di fronte a me c’è una ragazza dalla pelle scura e un abito blu elettrico. Ha in testa un turbante, si intravedono pochi capelli, ha il 56. Ogni volta che chiamano un numero ha un sussulto, non parla italiano, mostra il foglio, mi guarda, non è il suo turno. Non so perché è qui. Sul vestito ha dell’erba attaccata, vorrei dirglielo ma non serve.
Accanto a lei c’è un bambino sulla sedia a rotelle, avrà al massimo otto, nove anni. Ha la caviglia gonfia e smanetta al cellulare. C’è una donna ad accompagnarlo, forse è sua madre. Ha lo sguardo perso nel vuoto, porta i capelli raccolti in una pinza, delle ciabatte rosa e gli occhi azzurro cielo. Sembra essersi truccata, stamattina, ma il sudore ne ha tirato via una parte. Il bambino si alza, lei lo acchiappa da un braccio e senza dire una parola gli fa capire che deve stare fermo. E lui obbedisce.
Il quinto dito del piede si chiama anche mellino.
Glielo dico entrando in accettazione. Si chiama Matteo l’infermiere che mi intervista, porta il nome scritto sul petto. Lui resta un attimo perplesso, mi guarda, mi chiede nuovamente quale sia il problema. È il mellino, ripeto, stavolta indicandoglielo. Il quinto dito, mi corregge. Sorrido, non importa.
Vicino alla porta di ingresso c’è un uomo vestito di nero. Ha la barba e gli occhiali da sole sulla testa rasata. Si lamenta, borbotta, ha caldo anche se di caldo qui non ne fa per niente. Ce l’ha con la ragazza col turbante, perché non capisce l’italiano, e poi con l’ospedale, perché sta aspettando, e perché deve avere un pretesto per essere arrabbiato, con la sua mano fasciata e lo sguardo annichilito.
Chiamano il 55, è il suo numero, ha da ridire anche su questo, l’infermiera gli indica la strada, solleva gli occhi. Vestito blu stavolta non mi chiede nulla.
Il quinto dito del piede si chiama anche mellino.
Chiamano il 56, è il suo turno. Alzo la mano, e la chiudo facendo un ok. E lei mi risponde, alzandosi dalla sedia e tenendosi la pancia. Anche sulla schiena ha dell’erba appiccicata.
Io aspetto, sono un codice bianco e ascolto i rumori dei pensieri. Il mio numero è il 59, sono l’ultimo della fila, come sempre, del resto. Guardo al di là dell’ingresso, il vetro è coperto da avvisi, precauzioni, osservazioni, parole, superfluo. Scorgo dei volti che non conosco, cerco occhi che vorrei trovare, silenzio.
È la stessa sensazione di quando si apre la porta agli arrivi dell’aeroporto, o scendi da un treno che ti ha portato lontano, la stessa sensazione di quando piove e non hai l’ombrello, o di quando hai bisogno di una cioccolata calda come abbraccio.
Il quinto dito del piede si chiama anche mellino.
Entro a fare la visita, la dottoressa è distratta, mi indica il lettino e parla sottovoce. Mi chiede cos’è successo, spiego di nuovo, è tutto così superfluo. Inizia a farmi la fasciatura, ma il nastro adesivo non si attacca. Iniziamo a chiacchierare, anche lei fa teatro. Fra quindici giorni vado in scena e farò la ballerina, le dico. Sorride, mi dice che non potrò ballare sulle punte, fortuna che non dovevo farlo neanche prima. Il dito adesso mi fa malissimo, la dottoressa l’ha riposizionato, durerà qualche giorno. La saluto e torno al punto di partenza, mancano le dimissioni.
Accanto a me, adesso, c’è una coppia di vecchi. Lei ha i capelli biondi, di un biondo finto tinto male. Lui invece ha un cappello con scritto Roma. Parlano di niente, di quel niente che dopo anni che vivi assieme ti racconti. Lui del suo ginocchio e della protesi rovinata, lei della cena di ieri sera e del pesce che ha comprato. Sono soli, e sono teneri. Uno nelle mani dell’altra, con rughe d’amore a descrivere gli anni.
Mi danno un antidolorifico, aspetto che faccia effetto. Devo guidare e il piede non ne vuole sapere.
Il quinto dito del piede si chiama anche mellino e io me lo sono rotto come un cretino, salendo il marciapiede sotto casa mia. Ho sentito crack, ma il dolore non è arrivato. L’ematoma sì. E adesso sono qui che aspetto di essere dimesso, guardando oltre il vetro, disegnando desideri e pensieri.
“Adesso chi cazzo glielo dice a Licia e Danilo?!”.