Lost in Paradise
La mia insegnante di pittura mi fa notare di essere fuori allenamento circa l’esercizio del nostro metodo di ripercorrere il contorno delle immagini con lo sguardo per memorizzare linee e proporzioni.
Decido di farlo, a scuola, durante la ricreazione, osservando il culo delle colleghe che vanno verso il caffè. Le vedo in fila, variopinte e ciarliere, mi concentro sulle forme e indovino parallelepipedi, semiconi, trapezi, cubi. Capisco il prof erotomane, adesso, quando lo beccai nell’esercizio delle sue funzioni. Solo, io guardo la forma, lui il contenuto.
La mente corre verso un’antica gita scolastica quando ero giovincella di belle forme anch’io, con una supplenza lunga sulla cattedra di inglese in un prestigioso liceo privato. Uno dei colleghi accompagnatori era un porco di matematica di mezza età, col fisico di Gargamella e la mente di Tinto Brass. L’anziana prof di lettere si era messa in malattia, che di portare a zonzo 25 bestie di 16 anni per Lucca e Viareggio non ci pensava proprio, e l’astuto preside aveva deciso di mandare me, al suo posto. Ero giovane, una manciata di anni più di loro, piena di entusiasmo, venivo dal teatro e dai piano bar, li facevo cantare. Mi adoravano; rispetto, zero, ma affetto tanto. L’assetto strategico sul pullman era questo: il mitico autista tosco Gino, ai primi posti i quattro prof, le giovani, io e l’adorata collega di scienze, e i due maschi agèe , tre neuroni per due teste, Gargamella in crisi da andropausa e il prof di educazione fisica contemporaneo di de Coubertin. Dietro di noi, la ciurmaglia sguaiata dei ragazzi. E meno male che erano rampolli di “buona famiglia”. In quanto unica docente rappresentante materie umanistiche mi ero dovuta preparare la storia di Lucca e Viareggio, e la vita del sommo Puccini. Mentre sto al microfono a cantilenare mi raggiunge un grido:
“A professore’, vieni a canta’ con noi, ce la racconti dopo la storia… Mirko ha portato la chitarra, te famo puro i Beatles!”
Mi arrendo con piacere e li raggiungo nelle retrovie. Mirko, occhio turchino e faccia da schiaffi mi porge la chitarra.
“La sai sona’?”
Ed io, timidamente:
“N-no…. I canto, solo”…
Mirko mi strizza l’occhio e scuote la testa, un compagno mi dice:
“Lo vedi, nun sai fa’ un cazzo e te lamenti con noi!”
Mi esce l’anima della zitella inglese e gli rispondo, piccata:
“Che c’entra, mica insegno musica, io! Anzi, ora vi interrogo sul Present Perfect!”
“No, no, professore’ – è un coro – stavamo a scherza’ … cantamo!”
Cantamo. I Beatles, e Lennon, e Baglioni, Battisti, e le osterie. E via così fino a destinazione. Una ragazza mi fa un sorriso e dice:
“T’avemo salvato co’ ‘ste canzoni che il prof de mate te stava a batte i pezzi, là davanti… ce credo, sei l’unica carina tra quei cessi”
La guardo, riconoscente. Ha ragione, stella. Arrivati in albergo poco prima di pranzo, decidiamo per una doccia veloce, poi a mangiare e poi via, a piedi, per le mura medievali di Lucca. Formazione strategica per la ricognizione: le prof giovani e forti in testa, i ragazzi dietro a scambiarsi gomitate, confidenze e insulti, ancora non era epoca di cellulari, i colleghi maschi e Gino chiudevano il corteo, parlando di clima, di politica, di fantacalcio e altre amenità. A un certo punto i maschi, affranti da un insolito caldo, ci comunicano che si fermano al bar. Inutili, come sempre. Noi colleghe proseguiamo da sole con la truppa. Cammina, cammina, ci imbattiamo in una serie di bancarelle di libri scientifici, la collega e i suoi cocchi nerd si accendono come lampadine e lei mi fa:
“Noi ci fermiamo un attimo a guardare, se non vi dispiace!”
Ci dispiace sì, io e gli altri bambini ci stufiamo. Annuncio:
“Ok, voi rimanete qua, noi continuiamo il giro, ci si rivede al pullman!”
La scienziata mi rivolge uno sguardo preoccupato:
“Sei sicura, cara? Tu non hai un grande senso dell’orientamento!”
È fatta; questa donnetta di poca fede ha peccato di lesa maestà. Più di quanto una giovane Ariete/Leone con aggravante siculoamericana possa tollerare.
“Ma certo che sono sicura”, ruggisco, “ci vediamo dopo!!!”
Prendo due alunne sottobraccio e mi avvio verso la perdizione. E infatti, ci perdiamo, in ventidue. Tra quelle mura medievali bellissime e i pattinatori e i ciclisti e il caldo torrido. Ma non posso crollare proprio adesso, continuo a camminare.
“A professore’, ma de qua ce semo già passati… fermamose n’attimo, nun gliela famo più”
Mi arrendo. Ci fermiamo. Ci accasciamo tutti come fiori calpestati sui gradini di una chiesa. Ad aspettare. Non so nemmeno cosa; un’astronave aliena, Puccini con la cavalleria, i carabinieri. Lì sì che sarebbe servito, un cellulare. Appoggio la testa sulla spalla di un’alunna, inerte come un fantoccio, e ne respiro il profumo buono. Io credo di puzzare di sudore, invece. Ho voglia di piangere, tanta. Ma non si può. All’improvviso il fantoccio si anima, urla:
“Ma quello… quello è Gino coi prof, ce stanno a venì a prende! Famose vede, raga!”
Stringo gli occhioni miopi e li riconosco, in lontananza: Gino e i suoi baffoni, seguito a ruota dai docenti e dal gruppetto dei secchioni, che subito ridacchiano alla vista dei compagni sfatti per colpa della mia incoscienza. Mi devo sopportare pure le battute degli adulti. Inizia la scienziata:
“Io ti avevo avvertito, cara, se non fosse stato per Gino, qui, che essendo del posto vi ha ritrovati”
E penso “ma vai a fanculo tu e tutto il sistema solare. Cara. Voi ci avete abbandonato!” Il prof di educazione fisica mi rivolge uno sguardo arcigno da anziano genitore. Almeno, tace. Anche Gino sta in silenzio, però mi sorride benevolo, e somiglia un po’ a Puccini, mi sembra. I ragazzi attaccano lo psicodramma:
“Lo dicevo io, che stavamo a gira’ a vuoto…”
“A prof, c’hai fatto stancaaa'”
Il collega di matematica sibila:
“Che cavolo prendi queste iniziative, pure coi minorenni, tu che ti perdi pure dentro scuola!”
Lo guardo incapace di ribattere, allora ero troppo educata e giovane. Mi limito a pensare, adesso lo direi tranquillamente: “Ha parlato il cinghiale in calore, e giuro, se ti ritrovo con qualche scusa che stazioni davanti alle stanze delle femmine ti infilo la testa sotto le ginocchia”. Ero cintura blu di judo, all’epoca. Invece mi escono queste parole:
“Chiedo scusa a tutti. E tante grazie al nostro Gino. Per farmi perdonare, ce ne andiamo tutti in discoteca stasera, via!”
“Grande, professore’ sei la mejo dell’universo!”
Il prof di mate ora mi guarda con odio purissimo, e penso “Tutti i tuoi numeri di fronte alla mente creativa si devono arrendere, caro mio. Vai pure in stanza ad ammazzarti di seghe, poi ci raggiungi in discoteca”. Olè.
Trent’anni dopo. Ancora ostaggio nella scuola. Sto tornando dai confini della realtà, sulla seconda metro, successiva a un bus, dalla comoda sede dove mi hanno assegnato il corso di aggiornamento. Periodo immediatamente prima del lockdown dovuto alla pandemia. È un tardo pomeriggio; sono seduta, lo sguardo vacuo davanti a me, simile a quello dei gatti quando usano la lettiera, la mente sgombra dalla stanchezza. Non ho nemmeno la forza di pensare. In grembo tengo la scatola di stoffa che mi stanno insegnando a confezionare; sul lato destro è seduto un ragazzo sui vent’anni che smanetta al telefono e sul lato sinistro il posto è vuoto. Alla prima fermata disponibile viene riempito da un’entità a me indifferente. A un certo punto sento, da sinistra:
“Professoressa, professoressa… è proprio lei? Professoressa!”
Continuo a fare la statua di sale, poi da destra arriva la voce infastidita del ragazzo:
“A professore’ se lo volemo toglie, st’accollo? E je risponda, la stanno a chiama’ da un quarto d’ora!”
Mi giro incredula verso il ragazzo e telepaticamente gli spiego che ormai sono 30 anni che ho abdicato al trono da prof… come potevo pensare che si rivolgessero a me! Poi mi giro alla mia sinistra e lo riconosco, ahimè. Io le facce non le scordo mai. È l’antico preside della supplenza lunga al liceo.
“Sapevo che era lei, è uguale, lo stesso visetto, i colori… me la ricordo, quando veniva a scuola, la accompagnava quel bel giovane con la chitarra in spalla; mi facevate tanta allegria… vi siete sposati, poi?”
Sorrido, imperturbabile:
“Mi ha mollata qualche mese dopo per andare in tournée”.
“Ahhh, peccato, mi dispiace. Eravate tanto una bella coppia!”
Non ho dubbi sul suo sconforto, proprio. A questo punto, il ragazzo alla mia destra abbandona il telefono per godersi i nostri discorsi. Il molestatore di ricordi continua:
“E lei, che mi racconta? È diventata, poi, di ruolo?”
“Sì, ma nelle elementari…”
“Ahhh, bene, sì, ce la vedo, alle elementari, così allegra, creativa, materna”
Gli sono rimasta nel cuore, proprio, penso. Rilancio:
“E lei, è ancora in quel liceo?”
“Nooo, io sono in pensione da anni, ormai. Ma la scuola mi manca, lo sa? E i ragazzi… mia moglie vorrebbe tornarsene al paese dei suoi, ma io non ci penso mica a lasciare la città, gli amici, il circolo”
“Contento lei”, cerco di tagliare corto.
“Ma dove se ne va, professoressa, a casa? Dove scende? La accompagno? Adesso che ci siamo ritrovati, non perdiamoci ancora”.
Immagino il ragazzo alla mia destra scuotere la testa, con espressione complice. “Il lupo perde il pelo”… Rispondo con una punta di sarcasmo:
“Non vado a casa, no. Ho appuntamento in pizzeria, marito e figlio mi aspettano lì”.
“Aaahhh, certo, in pizzeria… mi preparo, allora, eh, che alla prossima scendo! Mi ha fatto piacere, professoressa”
“Anche a me, preside. Mi saluti sua moglie!”
Lo osservo allontanarsi a muso basso verso le porte e mi domando: “Ma ce l’avrà, questo, uno specchio, a casa sua?” Io e il ragazzo ritorniamo in silenzio alle nostre funzioni, dopo un fugace sguardo d’intesa. Lui sul telefonino, io a fissare il mio punto immaginario. E finalmente arriva la fermata di casa.