La radice e la foglia
Tutti vogliamo appartenere. A qualcosa, a qualcuno, a un luogo o anche solo all’idea che abbiamo di un evento, di un ricordo. Vogliamo fare parte, prenderci l’ultimo posto rimasto nel gioco della sedia. Non importa quanto sia scomoda la sedia o quanto si finga di prestare attenzione alla musica di sottofondo. Quando qualcuno dice “stop” vogliamo precipitarci a sedere mentre guardiamo il giocatore meno fortunato, in piedi, al centro dell’attenzione e viene squalificato.
È un po’ quello che sento quando torno a casa. I tentacoli della città sono avvolgenti e affascinanti, sussurrano malìe all’orecchio, conoscono i canti antichi dei luoghi del cuore. Offuscano la memoria e la romanticizzano come il fumo in quegli spettacolini di magia. Non troppo denso da storpiare la realtà, ma neanche così trasparente da consegnarla per quella che è.
E lasciarsi andare, lasciarsi trasportare diventa l’unico atto di fede possibile per non morire, per non diventare foglie d’autunno croccanti sotto i piedi di qualcun altro.
Vedo mamme combattere con passeggini e marciapiedi, incapaci di passeggiare senza scansarsi, sterzare, cambiare strada, pensare in anticipo alla traiettoria migliore per evitare motorini frettolosi e auto in vena di acrobazie. Vedo parchi giochi abbandonati all’incuria del tempo, dello spazio, alla vita del sottosuolo che rigogliosa si riprende ciò che è sempre stato suo.
Vedo chilometri di terre e raccolti, serre e campi, e non so più cos’è la Terra dei Fuochi, cosa risparmi e cosa inglobi nei suoi tentacoli avvelenati. La città continua a cantare il suo canto, come le sirene facevano con Ulisse. Anche io forse devo legarmi all’albero maestro perché per quanto veda, la mia vista è sempre parzialmente offuscata da quello che è stato, da quello che poteva essere in questa terra che benedice con una mano e maledice con l’altra, che accoglie e caccia con lo stesso corpo caldo.
Aprono negozi nuovi, qualcuno di artigianato, qualche libreria indipendente, un nuovo caffè che risponde alle esigenze di questa generazione intollerante al vecchio, insofferente alla tradizione. Ammiro lo spazio che hanno scavato nella roccia del “È sempre stato così” togliendo pietre al rassegnato “e chest è”. Ammiro chi resta e capisco chi sceglie di andarsene. Non c’è condanna, non c’è giudizio. Prendo atto di entrambe le forze che muovono il mondo: quella delle radici, che quando il vento soffia forte si aggrappano disperate alla terra facendo della profondità del suolo la loro forza per sopravvivere; e quella delle foglie che hanno capito che a restare attaccati ai rami – in qualche stagione della vita – si finisce per ingiallire e rinsecchire senza fiorire. E lasciarsi andare, lasciarsi trasportare diventa l’unico atto di fede possibile per non morire, per non diventare foglie d’autunno croccanti sotto i piedi di qualcun altro.
Ci vuole coraggio a essere radice in questa terra che nutre e avvelena la sua natura e ci vuole coraggio a essere foglia in balìa dei venti. Forse dovremmo solo accettare che lo stesso amore che nutre la radice sospinge anche la foglia un po’ più lontano. Nessuno si dimentica dell’altra. Imparano a vivere così, distanti, ognuna con il canto dell’altra impresso nella memoria emotiva, cognitiva, fisica.
Alla radice e alla foglia, al suolo che mi ha cresciuta. Le mie sirene siete voi.