Surya cade sulla Terra
Surya è in un centro trasfusioni ad accompagnare la sua amica Wilma, donatrice abituale. Ne ha sempre ammirato coraggio e generosità, vorrebbe tanto imitarla, ma proprio non le riesce. Lei odia profondamente ambienti medici, sangue, siringhe; il solo odore del disinfettante già la disturba. Proprio non potrebbe mai. Sarà che fa l’artista, come i suoi genitori. Attori entrambi, così stravaganti da chiamare questa unica figlia tanto attesa, nata nel giorno di ferragosto, col nome del Sole in sanscrito.
Surya.
Surya è al settimo anno di Conservatorio, studia pianoforte e sa perfettamente, o meglio perfettamente crede, giovane sognatrice, che la musica sarà la sua strada. Suonare ovunque, magari diventare concertista. Del resto a 21 anni è lecito sognare; anzi, è quasi un obbligo. La sua amica donatrice, invece, è assistente alla poltrona in uno studio dentistico. Schifezze sanguinolente ne vede tutti i giorni, per lei sono routine. Surya e Wilma si sono conosciute a un corso di alta cucina, quando avevano 17 e 19 anni. Lei intendeva imparare a prepararsi da sé la torta scenografica per la maggiore età, Wilma era solo curiosa. Questa grande curiosità l’aveva spinta ad avvicinarsi a Surya, la “strana”, pensieri sciolti e capelli blu. In amicizia, forse più ancora che in amore, vale sempre la regola del dover essere sufficientemente simili da comprendersi, per funzionare, e diversi quanto basta per potersi amare.
Quanto basta.
Come nelle ricette migliori. Da allora, ormai sono cinque anni, le due ragazze non si sono mai perdute. L’una il sostegno e la risorsa dell’altra, in un rapporto perfettamente alla pari. Sempre presenti nei momenti importanti e nelle giornate tipo. Infatti ora, malgrado le ipocondrie, Surya è lì, in sala d’attesa, ad aspettare che l’amica compia la sua opera di bene. Augurandosi che lo strazio finisca presto. Ma questa volta c’è da aspettare un bel po’, e lei seduta su quella plastica odiosa e dura, con le narici tormentate e il ciabattare degli infermieri, non riesce a stare più. Si alza di scatto, lei fa tutto così, di scatto, e si dirige verso i corridoi interminabili.
Cammina, cammina, in mente ha la melodia da ripassare per la lezione di domani, e un senso di fame e nausea insieme la opprime parecchio. A un certo punto il suo orecchio ipersensibile intercetta un singhiozzare sommesso e regolare. Si dirige come un automa verso quel suono e scopre che viene da una figuretta di ragazza accasciata lungo un paio delle odiose poltroncine di plastica. Si siede al suo fianco e le mette una mano sulla sua. Le esce una domanda involontaria:
“Perché piangi?”
Nessuna risposta. Lo ripete due, tre volte. Le sembra che sapere la risposta da questa sconosciuta dolorosa, probabilmente sua coetanea, sia una questione vitale, per lei, ora. Eppure la curiosa era sempre stata Wilma, non lei… ma ora, doveva sapere. La ragazza cede alle insistenze, alza improvvisamente il viso spiegazzato dal pianto e da una notte insonne, probabilmente, e le dice, con un filo di voce:
“È appena morto il mio ragazzo. Di overdose. Aveva iniziato a farsi per me, per me, capisci… e invece è morto lui…”
Surya ci mette un po’ a rispondere e le esce solo un:
“Ah…”
E la ragazza, stavolta con un rantolo rabbioso:
“Toccava a me, capisci, ero io la tossica… e lui aveva iniziato, per me… voleva sentire le cose come me… e non si è più fermato… e ora lui non c’è più e mi ha lasciata sola, senza nemmeno più il coraggio di morire!”
La ragazza fruga nella sacca di pezza ai suoi piedi e mette in mano a Surya una pagina strappata da un libro, macchiata ai bordi da chiazze multicolori.
“Questa è la lettera con cui mi ha chiesto di metterci insieme, guarda cos’era, lui!”
Si butta anche lei a terra, sconfitta dal pianto, come un fantoccio di pezza. Surya aggiusta gli occhiali sul naso e legge, a bassa voce: Angelica. Ti guardo da giorni e so che ti chiami Angelica prima ancora di scoprirlo dalle firme che hai messo, per giocare, sui disegni a pastello che hai sparso per la stanza. Mai nome ti sarebbe più appropriato. Il naso piccolo stuzzicato dalle efelidi, e le mani anche piccole e nervose come quelle di un puttino vivace, il sorriso aperto e timido insieme, i capelli chiari. Un vero angelo sei, a volte santo, altre caduto, luciferino. Perché gli occhi penetranti rivelano uno spirito sarcastico. Sono totalmente rapito dalla tua unicità. E mi sento debole e forte, davanti a te. E’ come se non riuscissi mai a raggiungere la tua essenza e mi venisse sempre più il desiderio di esserne all’altezza. Io sono un tipo orgoglioso, ho paura di mostrarmi debole, con tutti, con te, di gridarti quanto vorrei un tuo abbraccio, toccare i tuoi capelli di zucchero, mordere il naso piccolino, scolpire il tuo odore nella memoria. Ma ho appena deciso di parlare. Non conoscevo morbidezza e la tua mi terrorizzava, ero più al sicuro nascosto nel mio cuore di pietra. Ma non ero felice, così. La tua dolcezza mi ha insegnato la mia, e che essere fragili non vuol dire arrendersi. Grazie”.
“Grazie”, ripete Surya, mentre si alza dalla sedia.
Lascia la lettera sulla poltroncina, la lancia, quasi, come se scottasse. Muta, inerme, incapace. Non riesce ad aggiungere niente, neanche prova a tirare su da terra la ragazza. Si rimette in cammino, come un automa, verso la sala d’attesa e le rimbombano in testa, come tamburi minacciosi, le strofe di un cantante che ama molto, Niccolò Fabi, quando dice: Alla fine, qualcuno pagherà il male che ci ha fatto qualcun altro.