Un buco qua, un buco là. E adultezza fu
Un buco qua e un buco là, io ’o ssapev ca jev ’a firnì accussì. È vero, me lo dicevi sempre di imparare a cucire, ché sennò poi come avrei fatto dopo. Me lo ripetevi ogni volta che calzini, biancheria intima e indumenti vari si facevano appresso a me i 200 chilometri tra Roma e Napoli per affidarsi alle tue cure. Eppure a me di tenere ago e filo in mano non mi è mai andato giù. E poi mi sa che un poco mi sono sempre rifiutata di pigliarci confidenza perché volevo allontanare il più possibile quel giorno. E mo che quel giorno è arrivato, ecco qua, tengo ’nu cuofano ’e rrobba in attesa di rammendo. Pure il cuore mio ne avrebbe bisogno, perché pure lui tiene un po’ di pertusi che si sono aperti da quando quel giorno è arrivato.
Chiamiamo alcune epoche della vita con i nomi di infanzia, adolescenza, giovinezza, vecchiaia. L’adultezza, invece, non esiste perché si diventa davvero adulti tutt’a un tratto, all’intrasatta, proprio quando arriva quel giorno e si smette di essere figli.
Imparerò a rammendare, chissà. Intanto io ogni giorno provo a metterci una pezza a colori, ché lo so bene che, da quando hai deciso che proprio non ne potevi più di stare senza Papà, hai incrociato le braccia e hai detto “mo basta, sono stanca ’e campà”, nulla più sarà come prima.
E allora spiegamelo tu come si fa, tu che l’adultezza sei stata costretta a conoscerla fin troppo presto. Raccontami dei giorni di silenzio e vuoto senza il tuo compagno di vita, “stella”, lo chiamavi. Come mi chiamo io, Ester, Ishtar, stella del mattino. Tutto torna, la vita sa essere perfetta pure nel dolore e nella mancanza laceranti. Raccontami, ché così, se non ho imparato a rattoppare, magari imparo a metterci una pezza a colori e a togliere dai miei giorni il grigio della nebbia che è calata da quando ho dovuto congedarmi dalla me figlia senza possibilità alcuna di ritorno.
Insegnami ancora, Mamma.
(Immagini tratte da Pixabay)