Marilina
Prendo in prestito il nome della protagonista di un romanzo datato ma bellissimo e di successo, del ’92, che è stato anche un film non altrettanto bello e di successo, e che mi sento di consigliare caldamente, soprattutto alle ragazze della mia età.
“La bruttina stagionata” di Carmen Covito.
Aprirà loro nuovi mondi esaminando con sguardo agrodolce il tempio femminile delle cosiddette cougar, come Marilina, appunto. Il riferimento da abbinare alla sottoscritta è, però, principalmente di tipo tricologico. Aprile è il mio mese, in cui per tradizione mi regalo un taglio e un colore completamente nuovi. E rivoluzionari. Nata rossa grazie ai geni di nonno e mammà, cresciuta castano-ramata e ben presto incanutita, da una ventina di anni buoni sono stata costretta alle diverse sfumature gialle, dal cenere all’oro al platinum di Plati, per confondere le acque sulla ricrescita d’argento. Mi sono arresa, da anni, al nido di rondine crespo e ribelle che solo l’infallibile nonna riusciva a trasformare in boccoli da damigella settecentesca, ormai.
Invecchiare a qualcosa ancora serve.
Si comincia, finalmente, a scegliere, vivere, preoccuparsi soprattutto per sé. Senza dover piacere o gratificare qualcuno, parente, amico o amante che sia. Ma anni addietro, fresca di assunzione, di matrimonio e di maternità, ancora al look ci tenevo tanto. Mi regalai per una decina di anni quasi, oltre all’assassin blonde, lunghi capelli trattati costosamente e dolorosamente con la cheratina. Un bel casco di spaghetti al dente. Collego un po’ di foto e di ricordi al mio “periodo aureo”. Un giorno andiamo, io e il consorte, a prendere il figlio all’asilo. Troviamo la maestra, quella vecchia e alta, metaforicamente con le mutande in mano perché invaghita di mio marito, delusissima dalla mia presenza… al confronto con lei, allora, eravamo Marilyn Monroe contro Marilyn Manson. Ma qualcosa doveva pur dire, l’oca, per stemperare lo sconforto. Mentre ci consegna il demonietto ci guarda e fa:
“È proprio bello, questo ricciolino… peccato solo che non abbia preso i capelli della mamma!”
E lui, già scassapalle dalla prima infanzia e alfiere della verità, tutte doti materne, le urla :
“Guarda che mamma c’ha i capelli più ricci di papà!!!”
Portavo fiera i miei spaghetti al dente anche a scuola, nell’esercizio delle mie funzioni: capitanavo la fila di ragazzini verso il cesso. Poiché sono una delle poche che ricorda che hanno anche dei bisogni corporali, ‘ste creature. Mentre cammino a passo di bersagliere con la truppa al seguito sento da dietro un molestissimo:
“Dicaaaa, dove va???”
E un rumore di passi affrettati per raggiungermi. Mi giro, la identifico; è una collaboratrice scolastica di fresca acquisizione, ci conosciamo poco. La guardo, interrogativa. Lei mi riconosce, si mortifica:
“Ah, è lei, maestra… mi scusi tanto sa, è che coi capelli nuovi non la riconoscevo… Sa, mi vedo questa Barbie cavallerizza co’ tutti i regazzini dietro… Mi sono spaventata, capisce… verso il bagno!”
Ed è un trionfo di risate dietro di me. “Infatti in bagno me li sarei mangiati uno per uno, imbecille!” Penso. Poi mi ricordo che Barbie è muta. E sorride sempre. Sorrido. E lei, devastata dalla figuraccia:
“Però sta bene, coi capelli lisci, eh?”
Eh.
Il tragitto dal lavoro a casa lo facevo rigorosamente a piedi. Carica come un mulo mi avviavo alla mia nuova casetta di marzapane. Maestra da poco dopo aver abdicato per scelta al trono di prof di inglese, sposetta da poco, biondona da poco. Vivevo nei miei sogni, poveraccia. Giunta davanti al portoncino, col megaregistratore alla Spike Lee ( perché io l’inglese lo insegno così, niente libri, solo musica ), piena di quaderni da correggere, in ritardo per preparare il pranzettino, quindi più trafelata e goffa del solito, mentre cerco di infilare la chiave nel cancello, mi cade. Impreco, mi chino a cercarla e sento uno sguardo sulle chiappe inguainate nei jeans. Le maestre hanno gli occhi pure dietro, per lavoro si deve fare.
“Aspetti, l’aiuto!”
Una voce suadente mi assiste da dietro. Mi tiro su e mi giro, bilanciando quaderni, borsa e registratore. Alzo lo sguardo verso un soggetto altissimo, non giovanissimo, biondo stempiato con gli occhi turchini… sarà l’arcangelo Gabriele? Da come si concentra sul sole giallo della mia maglia Hard Rock Cafe tutta questa santità non me la ispira… parla, ancora.
“Salve, è la nuova inquilina? Io abito sopra di lei!”
“E se lo sai che cazzo me lo chiedi a fare?” Penso. Rispondo, invece:
“Ah salve, piacere, mi dispiace non le posso stringere la mano”…
“Ma si figuri…”
Continua, rivolto al mio sole ansimante. Istintivamente mi copro con i quaderni. Sarei venuta a sapere, in seguito, che il mio premuroso vicino era un gaudente single puttaniere che usava l’appartamento come pied-à-terre per i suoi incontri più o meno clandestini.
“Musicista?”
Imperterrito.
“No, maestra…”
“Aaah che bello, ci mancava proprio, nel condominio, una maestrina rock”.
Sento già di detestarlo. Ma sorrido.
“E con chi si è trasferita qui, una sorella, colleghe?”
“Te piacerebbe”, penso.
“Mio marito”.
L’ho sconvolto, ma fa l’indifferente:
“Aah, quel ragazzo alto, scuro, pieno di capelli?”
Lo sfido, ingoiandolo con i miei immensi occhi:
“Eh”.
Ripete, imbambolato:
“Eh”.
“Bel trio faremo, nel condominio, Sandokan, la perla di Labuan e il pappagallo”. Intanto lui raccoglie le chiavi e mi apre cavallerescamente il cancello, con la coda e chissà cos’altro fra le gambe.
“Prego, signora maestra!”
Che carriera fulminante, da “maestrina rock” a “signora maestra” in neanche tre minuti. Basta la parolina magica, un rivale. “Perchè tra cani non si mordono”, diceva nonna.
James Taylor era uno dei miei assi nella manica per farlo interessare all’inglese.
“Senti che bravo, e si chiama come te!”
“Ma è vecchio!”
“Ma tu stai a sentire, e poi ci vediamo un paio di cose sul testo!”
Holy shit. Era un ragazzino davvero difficile. Dolcissimo, simpatico e bellino. Ma davvero svogliato. Faceva le medie, il primo figlio di tre, e il più viziato, in quanto unico maschio. Avendo conosciuto le sorelle, avrei detto anche il più tonto. Per tutti gli interminabili anni della scuola media lo seguivo nei compiti di inglese, ogni primo pomeriggio, prima di correre a riprendere il figliolo a scuola. L’inglese proprio non gli entrava in testa. A causa anche di insegnanti e libri decisamente mediocri, per sua minima discolpa. La mamma era una mia conoscente, bella e idiota come lui. Ci metteva tutto l’impegno a seguire i tre pargoli, e vedevo con quanta fatica. In più era affiancata, anzi radiocomandata da madre e suocera (sua vicina di pianerottolo, argh), che se da un lato la aiutavano, dall’altra le toglievano autorevolezza nei confronti dei figli, sostituendosi parecchio a lei. Il marito, rappresentante di prodotti per parrucchieri era ovviamente belloccio, ovviamente idiota, ovviamente mammone, ovviamente montato. Che potevano mai generare, due simili geni… anzi, le bambine erano venute fin troppo sveglie. Lo vedevo di rado, ovviamente era anche latitante, e quando capitava mi strizzava l’occhio ceruleo: “Hello, Miss!” E intavolava una conversazione con la competenza di Sordi nel celebre film. A suo figlio Giacomo importava dell’inglese più o meno quanto a me della sua amata A.S. Roma, ossia una beata minchia. Ma c’erano i compiti da fare. La mia mente vulcanica mi aveva fatto ricorrere a tanti percorsi alternativi alla noia dei libri di grammatica; canzoni, appunto, e fumetti, e film. Qualcosa, con estrema fatica, combattendo contro la sua labile capacità attentiva e gli umori adolescenziali, riuscivo a ottenerla. Ma ogni volta che finivo la lezione precipitandomi verso la scuola del bambino con ancora in corpo il loro pessimo caffè preparato a forza, era una liberazione. Avevo notato, anche, che mi veniva destinata sempre la stessa tazzina di ceramica di Vietri sbreccata. Forse mi consideravano una specie di hippy barbona, con la criniera sugli occhi, i caftani e i miei gusti musicali da guerra del Vietnam. Gli facevo un po’ schifo, mi sa. Con la scusa del caffè mi ritrovavo la mamma e le nonne intorno, spesso; i miei metodi rivoluzionari piacevano molto. Credo di aver insegnato molto più a loro, in realtà. Fatto sta che, miracolo, io e Giacomo arriviamo agli esami di licenza senza mai un debito e con una discreta preparazione. Qualche tempo dopo, mentre sono per strada con mio figlio incrocio la mamma, sempre bellissima ed elegante, con l’unica compagnia di un cocker gigante nero e schizofrenico (neanche il cane era riuscita ad educare). Iniziamo a chiacchierare, mi informa che il figlio si è iscritto al liceo linguistico e si mortifica quando all’inizio la prendo come una battuta. Il mio di figlio intanto ingaggia una lotta tra titani con il cane, ma in realtà ha sentito tutto. Gli prende la voglia di troncare la conversazione scomoda e in un impeto di gelosia mi fa, a voce altissima:
“Ma questa chi è, la mamma del somaro?”