Macchina del tempo
Io e Carlo abbiamo rispettivamente una zia e una nonna che risiedono nella stessa casa di riposo in un paesino di montagna non lontano da dove risiediamo. Ogni tanto si va assieme a trovarle e passarci del tempo in compagnia.
Una di queste volte arriviamo nell’orario in cui gli operatori sanitari stavano facendo recitare loro il rosario. Non essendo proprio i perfetti esempi di buoni cristiani, ci guardiamo negli occhi e con un cenno ci allontaniamo.
“Che si fa Carlo?“
“Qui sotto ho intravisto un baretto Sal. Perderanno almeno quaranta minuti pregando, noi beviamo qualcosa nell’attesa.“
A passo svelto scendiamo per delle scale ed entriamo in questo bar in cui sembrava che il tempo si fosse fermato da secoli. Un bancone in legno ormai scotto, due tavolini, uno in cui ci accomodiamo noi e uno in fondo alla stanza in cui quattro vecchi se ne stanno a giocare a carte. Il proprietario, nonostante fosse grosso modo un nostro coetaneo, somigliava più a quegli anziani che a noi.
“Due bicchieri di vino!“ ordina Carlo. La sua frase rimbomba in quella stanzina come un urlo a squarciagola. Il ragazzo si avvicina col vassoio poi torna a farsi i cazzi propri mettendosi a guardare la partita a carte.
In alto, sulla parete scrostata nera di umidità e muffa, un orologio segna le due e ventitré ininterrottamente chissà da quanto. Il silenzio è tombale. Nessuno proferisce parola, quei quattro con movimenti lenti ogni tanto tirano sul tavolo una carta, ma non li senti parlare o chiedersi qualcosa.
L’atmosfera è ovattata, il mio corpo è preso da torpore e fisso sempre la stessa cosa da infiniti minuti
L’atmosfera è ovattata, il mio corpo è preso da torpore e fisso sempre la stessa cosa da infiniti minuti senza che me ne renda conto. Ad un tratto alzo lo sguardo e mi volto verso Carlo. I capelli li aveva bianchi, non tutti ma buona parte. Lui che li aveva neri ora ha pure delle rugose borse sotto gli occhi. Cerco di farglielo notare ma non riesco nemmeno a parlare, lui fa lo stesso con me e presumo che anch’io abbia qualcosa di strano nell’aspetto.
Provo a capire che ore sono, ma quel maledetto orologio è sempre lì immobile con le sue lancette bloccate. Soltanto quella dei secondi accenna brevi spasmi, tic tic tic, ma come ogni cosa che entra in questo maledetto bar invecchia in un batter d’occhio.
Mi volto nuovamente verso Carlo: mio Dio!, è completamente canuto, le rughe gli prendono tutto il viso e non ha più neanche la forza di alzare il braccio per prendere il bicchiere, che è lì quasi pieno. Manca il primo sorso bevuto non ricordo neanche quando. Sembra siano passati dei secoli da quando siamo entrati dentro.
Tic tic tic. Le due e ventitré da ore, giorni, mesi, anni. I vecchi continuano a giocare a carte come se la partita non avesse mai un vincitore. Fisso le mie mani e sono deformi, tipo preda dell’artrosi. Ci guardiamo con Carlo e sembriamo vinti dalla vecchiaia. Ci resta appena la forza di essere compassionevoli l’uno con l’altro e vorremmo aiutarci a vicenda, trovando un modo di fuggire da quella stanza che sembra una macchina del tempo che ci ha trasportato in un passato non ben definito. O in un futuro anticipato, chi lo sa!
Nessuno dei due sa cosa fare per tornare a quella che era la nostra normalità. Ma chi cazzo la ricorda la normalità?
Pian piano sbiadiscono i ricordi, la mente è come offuscata da una forza oscura che ci ha preso prigionieri in questo maledetto catoio da cui non si riesce ad uscirne vivi.
Siamo sempre gli stessi, nessuno da quando siamo arrivati è entrato da quella porta di fianco a Carlo.
Poi, come un incantesimo, puff, finalmente la porta si apre. Due individui entrano e con le ultime energie che hanno i nostri corpi deformati dalla vecchiaia ci tuffiamo fuori sul marciapiede.
Siamo tornati quelli di prima e la gente che passa davanti ci guarda come se fossimo due pazzi.
La prima cosa che facciamo involontariamente è guardarci a vicenda. Siamo tornati quelli di prima e la gente che passa davanti ci guarda come se fossimo due pazzi.
Uno di quelli che stavamo per far cadere a terra ci prende a parole ma che ce ne importa? Ci abbracciamo e di corsa scappiamo via all’auto.
“Corri, corri Carlo, corri. Fanculo questo maledetto paese, quel maledetto bar. Siamo vivi, siamo viviii.”
Quando incontrate qualcuno che vi dirà di volersi godere la vecchiaia dategli un pugno in faccia. Che significa godersi la vecchiaia? Chiedete a Carlo se fosse felice!
Non mi ero mai cagato così tanto addosso.
Un vecchio decrepito che non riusciva neanche ad alzarsi dalla sedia, storpio e rugoso.
Fanculo quella prigione in cui ero recluso fino qualche minuto fa.
Non verrò qui mai più in vita mia.
E se diranno beviamo qualcosa al bar dirò che sono astemio!