Dall’alba al tramonto – breve storia di un amore
Ero una studentella universitaria di Lingue; per pagarmi le vacanze-studio facevo tanti mestieri, dalle supplenze al babysitting, al pubblico pagato per i programmi TV; i “figuranti speciali”, così si chiamano, li pagano un po’ meglio, perché vengono inquadrati e alle volte perfino intervistati. Ero stata trascinata in quella bizzarra avventura dalle amiche aspiranti attrici e da un vicino di casa, all’epoca: l’unico tra noi destinato a un fulgido futuro nello showbiz, nientemeno che portabuste ufficiale del Grande Fratello sin dalla prima edizione. Allora io e lui andavamo allegramente nella sua macchina, per diverse sere a settimana fino agli studi Dear in via Nomentana. E tra il pubblico pagato, c’eri tu, il veterano. Facevi tanti lavori nello spettacolo e fuori, il tuo sogno era arrivare a presentarlo, un programma. E ne avevi tutte le qualità. Eri più grande di noi studenti-lavoratori; ci guardavi dalla tua prospettiva multitasking: comparsa a Cinecittà, stuntman, animatore, scrittore, piano bar, fattorino, maggiordomo, sommelier e puttaniere, sicuro… ti facevamo allegria e tenerezza. Come le scimmiette del circo. Io, in particolare, la più scimmia di tutti. Una sera il mio amico chaffeur mi molla senza preavviso, perché aveva mal di testa e abbandona prima la trasmissione, ‘tacci sua. Rimango a piedi, quasi a mezzanotte. In un periodo senza fidanzati. Non volevo chiamare il mio povero babbo, che sicuramente a quell’ora stava facendo i piatti immerso nei suoi dischi di musica classica. Neppure chiedere alle amiche che abitavano dall’altra parte del mondo; i soldi per il taxi non li avevo. A mezzanotte e uno mia madre avrebbe cominciato già a chiamare l’esercito… cazzo, pensavo, mannaggia, e adesso? E sulla mia faccia quello che pensavo si leggeva bene. Come uno squalo che percepisce l’odore del sangue ti sei avvicinato:
“Ti serve un passaggio?”
Una voce profonda che mi entra nelle ossa, alzo lo sguardo velato di lacrime di rabbia, eri davvero alto, incontro uno sguardo attento che dipinge di azzurro la mia disperazione…
“Sì, in realtà, sì. Il mio amico qui se ne è andato via prima e mi ha lasciata a piedi”…
Sorridi. Mi chiedi il nome, ti stupisci che sia esotico, ti racconto delle mie ascendenze americane, inizi a parlare in inglese perché hai vissuto 15 anni sulla West Coast. Sono come ipnotizzata. Per fare la disinvolta tiro fuori una sigaretta, senza accendino. Lo avevo prestato al collega in macchina, ovviamente. E lì era rimasto. Mentre cerco inutilmente nella borsa, mi offri da accendere tu. Coprendo le mie mani con le tue. E presa dall’imbarazzo faccio i miei casini, la sigaretta si accende per metà. Abbasso gli occhi, sconfitta. Tu ridi.
“Sai come si dice, quando la sigaretta si accende così? Che sei sempre nei pensieri di qualcuno!”
“Ah”…
Istintivamente, la butto. Tu la raccogli. Pure ambientalista, eri… Mi prendi per mano e non so come non sono morta lì. Ci avresti pensato dopo, a distruggermi. Mi hai portata alla tua auto, o meglio alla tua auto del giorno, perché le cambiavi spesso, erano tutte in prestito. E mi hai portata a casa. Ma la mia casa eri tu. E lo sapevi. Io ancora no, ancora no.
Parecchi mesi dopo, Midsummer; un amore forte ma contrastato ci bruciava al sole di un camping in Toscana in cui tu facevi il capo animatore, alla Fiorello dei primi tempi. Io allora finalmente laureanda ma sempre con l’hobby della musica e della pittura. E l’infallibile talento per i disastri sentimentali. L’animatore del Sole, questo il nome del villaggio, aveva organizzato col supporto delle milf villeggianti e delle nonne tutte, una gita in barca verso l’isola del Giglio. Giornatona. La settimana prima ti avevo fatto la carrambata mollando il gruppo di cui ero guida turistica sulle Prealpi, per correre da te a Marina di Grosseto, lasciando le vecchie del camping nella disperazione. Dovevi farti perdonare da loro, e bene. Ricordo perfettamente quella giornata di trenta anni fa; ero vestita di rosso fiorato, pareo coordinato al bikini, occhialoni e cappello a tesa larga alla Jackie Kennedy, e i tacchi. Non sono bassa, ma tu davvero altissimo. Come consorte del re Sole non potevo essere da meno. Eri di una bellezza abbagliante. Riccioli scuri sotto il panama candido, voce suadente ed eloquio perfetto, occhi cobalto sulla faccia abbronzata e un sorriso sbiancato per tutti. Narciso da manuale. Dopo la traversata in mare, ad assistere con Ilaria in braccio alle moine delle vecchie mentre le intrattenevi alla chitarra, scendiamo, alla ricerca di una spiaggetta per famiglie. Ilaria sempre alle calcagna. Una bimbetta esile e bionda sui dieci anni che per scappare da una famiglia di zombie e il fratellino pestifero, abbandonava regolarmente la sua tenda per raggiungere la nostra. Si era così affezionata da chiamarci “zii” e io me ne innamorai talmente da scoprire grazie a lei la vocazione di insegnante. Trovata la tranquilla oasi le vecchie si ricongiungono ai mariti e alla figliolanza; anche Ilaria, per fortuna. Narciso mi prende per mano.
“Vieni, lasciamoli qui”.
Ci inerpichiamo come capre di montagna su per un viottolo sassoso. Procedo per inerzia trascinata dalla tua mano forte. I tacchi mi fanno vacillare pericolosamente ma non ho paura. La tua mano non mi fa temere nulla… Arf. Con l’altra mano ti tieni il cappello. Osservo da dietro la figura bianca saltellante, i riccioli sferzati dal vento, la camicia gonfiarsi come una vela. Arriviamo a destinazione. Su una specie di strapiombo da cui si apre la vista di un mare da cartolina. Da quadro, appunto. La tua mano di nuovo mi trascina giù per lo strapiombo fino al livello dell’acqua. E di nuovo ti blocchi. Ti giri. Mi guardi, quegli occhi di angelo caduto. Non parli. Sei come me, logorroico, ma quando non parli bisogna aspettarsi qualcosa, di solito inquietante. Con un gesto fulmineo ti togli jeans e camicia e mi liberi di cappello e pareo. Rimango in bikini, occhialoni e tacchi. Imbambolata. E così conciata mi trascini in mare. Che mi accoglie col suo abbraccio di gelido velluto. Sento che ridi e mormoro:
“Stronzo!”
Ma rido anch’io. Nuoto come un pesce per qualche minuto, poi mi fermo a guardarmi intorno, tanta bellezza mi stordisce. E tu, leggendo nel mio pensiero, gridi:
“E questo è niente, non sai quanto è fantastico l’oceano, amore!”
Lo avrei scoperto qualche settimana più tardi quanto è fantastico l’oceano, amore. Quando, dopo il tuo abbandono, sarei volata dai parenti, col cuore a pezzi e l’anima allagata, per mettere più distanza possibile tra di noi. Davvero notevole, sì.