Cieli azzurri e condutture smaltate (Kiev rmx.)
Ho sempre trovato rilassante sdraiarmi e osservare ciò che sta sopra di me. Non ho nemmeno bisogno di un cielo azzurro oppure stellato. Ora ad esempio sono in palestra e ho appena terminato gli esercizi addominali. Me ne sto supino e osservo il cemento armato e le condutture smaltate sopra di me. Lo so, a Schiller non andrebbe mica a genio tutto ciò, Marinetti invece ci scriverebbe un’ode alla nazione idraulica. Per quanto riguarda l’opinione del sottoscritto direi che sto a metà tra uno e l’altro. Nel senso che scie di aerei secanti cieli cobalto sarebbero preferibili, ma pure le condutture hanno il loro perché. Ad ogni modo in questa posizione mi sento proprio al sicuro. Forse sono reminiscenze dei miei geni di primati nella giungla. I predatori attaccano? Don’t worry, la schiena almeno è coperta e la superficie visibile assai ridotta.
Se non che scimmione già fui e gli attacchi oggigiorno possono arrivare da chissà dove. Dalla radio, per dire. Il jingle che preannuncia il telegiornale richiama la mia attenzione. Si parla di una città sotto assedio. Io quella città la conosco fin dai tempi in cui ero un bambino e la maestra ci faceva ricopiare le cartine tematiche di un atlante con la copertina blu. A ogni simboletto corrispondeva un’industria. Alla voce Germania i simboletti stavano così sovrapposti che si faceva una gran confusione e le cartine ricopiate facevano tutte cagare, anche quelle delle bambine con le trecce castane e le mani di fata. Alla voce Ucraina invece c’era ben poco da ricopiare e quel poco stava tutto in quella città di cui stanno parlando alla radio. Che si chiama Kiev e quelli dell’atlante, forse per ricompensare la povertà tematica, gli hanno dedicato pure una foto. Del tipo: Dusseldorf e i suoi sedici simboletti mica ce l’aveva una foto. L’immagine rappresentava una bella chiesa nello stile eclettico orientale. Ci voglio andare, devo aver detto. Sì, lo devo aver detto di sicuro. Lo dicevo di tutti i posti che andavo conoscendo su quell’atlante dalla copertina blu. Del tipo: pure di Dusseldorf.
Sdraiato di fianco a me c’è un tizio che canticchia. Non so mica se ha sentito quello che hanno detto alla radio. È giovane, ha una gamba tatuata e l’altra no, un braccio tatuato e l’altro pure. I capelli neri e corti con una riga finta a sinistra. Ché, a lui non gliene frega della guerra? Dov’era quando la maestra ha dato da fare la cartina dell’Ucraina? A farsi quella tartaruga sul polpaccio, forse. Oddio, magari non ha sentito. Non so chi sia, se anche lui trova rilassante stare con la schiena a terra, se preferisce i cieli azzurri alle condutture smaltate. Se ha tremila cazzi per la testa che in fondo sì, per la Dinamo Kiev mi dispiace, ma già c’ho le mie da pensare che guarda, se te le dico stiamo qui fino a chiusura. Ecco, la verità è che la devo smettere di giudicare le persone a pelle. Le guerre scoppiano anche perché la gente butta lì giudizi a cazzo su cose che non conosce. Poi arriva un altro e ci mette il carico e via così finché non partono le colonne dei carri armati.
Ho sempre trovato rilassante sdraiarmi e osservare ciò che sta sopra di me.
L’allenamento è finito. Negli spogliatoi c’è silenzio. Chissà se qualcuno qui dentro è mai stato a Kiev. Quel tizio biondo e segaligno, per dire. Secondo me è moldavo. Magari c’è stato. Mi asciugo la barba con la manica dell’accappatoio. Che ne pensano questi qui della guerra? Ora mi metto le mutande e poi vi dico la mia. Ecco, un attimo che sistemo anche la maglia. Allora: io non ci capisco molto. Una volta le guerre erano più semplici. Io ci sono cresciuto con i racconti di guerra. Erano i preferiti dei vecchi di allora. Alcune storie le ho sentite così tante volte che mi pare di averle vissute in prima persona. Comunque a grandi linee funzionava come nei film americani: lì ci sono i buoni e là i cattivi. Nessun post di facebook da verificare, nessuna notizia da controllare. La verità è quella, non stare a farti troppe domande. Cazzo, vuoi morire? A essere onesti non credo le cose fossero veramente così semplici, però era il pensiero comune. Oggi si fatica ad avere un pensiero comune. Nemmeno in guerra si ha un pensiero comune. Ma come si fa a fare una guerra se si pensa alle ragioni dell’avversario? Forse non è più tempo di guerra. Forse diventeremo vecchi senza aver nulla da raccontare. Forse. Mi infilo le scarpe. Meglio così, dai. Parleremo di altro. Però qui nello spogliatoio non c’è più nessuno.
Insomma, ora esco e darò un’occhiata alla timeline di facebook. Immagino di vedere dei carri armati che oggi sono russi e domani si scopriranno essere ucraini. Cui prodest? Mah. Dove ho messo le chiavi della macchina? Vuoi vedere che mi sono cadute nello spogliatoio? Ah no, son qui. E poi anche questa storia che i russi sono diventati tutti brutti e cattivi non mi va a genio. Il mio primo aborto di romanzo, avrò avuto dodici anni, era ambientato in Russia. Durante un film di Ejzenstejn ho messo la mano sul ginocchio di una ragazza e lei non l’ha scansata. Raskolnikov è il personaggio a cui ho voluto più bene dopo Martin Eden. La Suite N. 2 di Shostakovich funziona da Dio da sbronzi. Torpedo Mosca è un nome bellissimo per una squadra di calcio. Evgenj Berzin ha vinto il primo Giro d’Italia che ho seguito da cima a fondo. Mah.
Ho bisogno di sdraiarmi nuovamente. Il tappeto di casa andrà benissimo. E se mi bombardassero? Visto dalla prospettiva di un bombardiere, sdraiato a quella maniera aumenterei la mia superficie, altro che sicurezza. Vedi, tu che mi stai di fianco al semaforo e picchietti sul volante, in questa guerra non ci si capisce più niente. Nemmeno come convenga stare seduti.
Spero almeno che la chiesa di Kiev raffigurata nell’atlante non me la radano al suolo. Che le promesse che mi sono fatto da bambino alla fine sono tra le poche che ho rispettato. Del tipo: a Dusseldorf ci sono stato. E mi dispiacerebbe, in un giorno di marzo del 2022, mentire a quel caschetto biondo che già fui.