Tre – le quote rosa
Prendo in prestito questa ridicola definizione della presenza femminile concessa in ogni ambito, per parlare stavolta di tre donne, rigorosamente esistenti e indubbiamente gentili, che hanno fatto o fanno ancora parte della mia storia. Immagini e nomi e ricordi amorevoli tutti originali. Sono storie belle, come le protagoniste. In rigoroso ordine cronologico.
1.Maria
Il nome che porto qui, Lygia, in portoghese significa più o meno “musicale” ed è un omaggio alla musica più bella del mondo, e uno tra i suoi autori più grandi, che ne ha fatto una canzone. La mia amica di Lisbona da sempre tiene molto a dirmi che la parlata del Brasile è “muito diferente“. Maria, confinata, come me, per cause familiari. In Italia. Prima a Roma, poi a Firenze. Quando era a Roma, oltre dieci anni fa, ci incontravamo ad Ostia per portare al pascolo mariti e pargoli, ed io le cantavo nelle orecchie tutti i pezzi di Tom Jobim. Maria diceva che la pronuncia brasiliana è tutta diversa. Per me, un particolare; tanto non ci capivo un cazzo lo stesso. Ma aveva un così bel suono, quella lingua. Un giorno che io e lei conversavamo amabilmente sotto l’ombrellone, bianche e bionde con quintali di di crema solare total shelter addosso, e gli occhialoni, mentre mariti e figli neri come tizzoni si scatenavano a calcetto, si avvicina una ragazza bellissima, alta, abbronzata, culo perfetto in bikini micro, e morbidi riccioli neri. “Garota de Ipanema“, proprio. La mia amica punta il naso da segugio e la riconosce. È brasiliana, parla la sua lingua. La ragazza ci srotola davanti un fazzolettone pieno di bikini coloratissimi. E piccolissimi. Poi attaccano a parlare fitto. Le guardo innamorata ed ebete. Che suoni meravigliosi. A un certo punto Maria mi fa:
“Dai, aiutiamo questa ragazza, compra un costume, tu sei più magra di me!”
Tento di ribattere:
“Ma sono piccolissimi…”
E lei:
“Ma è microfibra, io sono un ingegnere, me ne intendo… si adattano al corpo, tranquilla!”
Tranquilla un corno. Le due non mollano, mi marcano stretto, e mi convincono. La ragazza è organizzatissima, ha anche una minicassa portatile per fare scontrini. Ne compro due. Bellissimi, coloratissimi, piccolissimi. A casa li provo entrambi. Bellissimi, coloratissimi, piccolissimi. Mi fanno sembrare un lottatore di sumo ubriaco, mi scappa tutto da tutte le parti. Mannaggia a loro. Ma li ho tenuti, in un cassetto, senza certo indossarli e nemmeno regalarli, come al mio solito. Li ho tenuti come trofeo di quell’incontro speciale. Per quelle giovani donne in chiacchera accarezzate dal vento. E dalla musica.
2. Angela
“Collega artista che non mi ricordo il nome“… sento prima questa frase stramba e dopo vedo la sua autrice, alzando gli occhi dal cartellone che stavo dipingendo, in ginocchio, per terra. Una figuretta giovane e bionda, scalza, con le scarpe in mano mi fissa dall’ingresso. È la neoassunta prof di lettere che ovviamente non mi conosce bene; io sono alle elementari, non frequento le altezze letterarie, di solito. “We play”… Noto che oltre alle décolleté in mano indossa una gonnellina rosa confetto che giuro, prima di lei, avevo visto solo nel guardaroba delle Barbie. Ma lei sa parlare:
“Ecco, mi hanno detto che forse potevi aiutarmi, tu hai la pistola della colla a caldo… vedi, mi si sono scollate le tomaie delle scarpe… tutte e due, e sono inutilizzabili!”
“Amore, se esci di casa col diluvio in gonnellina e tacchi certo che può succedere”, penso. Ma mi fa tenerezza e scelgo di non infierire.
“Sei di turno adesso?”
“Si, tra venti minuti devo essere in classe, per quattro ore, non ho nemmeno la compresenza”…
“Peccato, penso, se avessi avuto la compresenza col collega dispersore di cataloghi d’arte e intenditore di sederi (ma questa è un’altra storia), ti avrebbe tenuta volentieri in braccio per tutto il tempo”. E invece le dico, molto praticamente:
“Non credo che la colla a caldo ce la possa fare, sai, qui ci vuole il mastice da calzolaio… non puoi chiedere ai collaboratori se possono prenderti un cambio a casa? O non so, ai parenti…” “Seee, quando mai, i collaboratori …”
In effetti era un pensiero da fantascienza, il mio.
“E io prendo la metro per venire, e qui io vivo sola, sono di Caserta!”
A questo punto mi fa proprio pena. Candy Candy, proprio.
“Come ti chiami?”
“Angela”
E mi punta in viso gli occhioni dorati e le lentiggini.
“Ok, Angela, proviamo”.
Proviamo, e non riesce, la colla non ce la fa. Angela comincia a scivolare nella disperazione, sto pensando di prestarle i miei stivali ma lei è esile e piccolina, avrò almeno tre numeri di piede in più. Mi viene una pazza idea delle mie. Le dico:
“Mettiti seduta”.
Le appoggio i piedini su una sedia di fronte e vado a prendere il panno lenci. Blu oltremare, con il rosa chiaro sta piuttosto bene. Armata di pistola a colla ed estro artistico le confeziono due ciabatte espresse, che ingentilisco con uno strass.
“Ecco, con queste la mattinata la dovresti reggere. E intanto ti porto le scarpe dal calzolaio qui vicino.”
“Sei un tesoro, grazie!”.
La vedo allontanarsi a passo d’oca verso l’uscita e verso i ragazzi che la faranno a strisce, coi commenti. Poverina. “Magari quando piove impara a mettere le galosce, la mia Barbie fashion, qui”, penso, “la scuola è una trincea, altrochè”.
3. Judy
Circa tre anni fa con gli spiccioli dei fondi per le scuole, al lavoro da me si erano permessi la lettrice madrelingua per le medie. Faceva così figo girare per le classi con lei al fianco, soprattutto per la collega di inglese che grazie alla crocchia, il naso appizzato e l’aria bruttarella e malinconica si sentiva tanto erede della Woolf. Quando non faceva la sua ombra, Judy si infilava nella mia stanza a chiaccherare. Nessun altro oltre noi due riusciva a comunicare con lei, che sapeva tre parole di italiano in croce. Anche lei deportata per seguire il marito, dalla ridente Virginia dove faceva la nutrizionista. Una specie di medico, insomma. Mentre qui, evviva evviva, era lettrice madrelingua sottopagata di mostri mocciolosi e senza rispetto, e sottoposta alle esaltate. Poor Judy. Il giorno che ci siamo conosciute me la porta una collaboratrice (al secolo, bidella):
“Mae’, la professoressa qui c’ha un buco di mezz’ora prima di entrare in classe. Non la volevo lasciare in corridoio, porella, non parla… magari lei gli fa un po’ compagnia?”
Ricordo occhi acquamarina immensi sotto una frangia biondo cenere. Non aveva capito un cazzo ma di me si fidava, a istinto.
“Glielo dica, mae’, che pure lei parla americano, così non si sente sola!”
La guardo e annuisco. Mi rivolgo alla prigioniera e nella sua lingua mi presento, la invito a sedersi e mi scuso se non le stringo la mano, per non sporcarla di vernice. Ovviamente stavo giocando coi colori, qui nella mia cuccia, mentre le altre infondevano sapienza nelle giovani menti obnubilate. Osservo gli occhi acquamarina accendersi di amore puro, alle mie parole. La sento ridacchiare e rispondermi, con voce dolcissima e accento miagolante:
“Wow, che bella pronuncia britannica hai!”
E vuole sapere subito la mia funzione, storia e orari. E mi racconta di sé. Mi racconta delle meraviglie della sua terra in fiore, soprattutto in quel periodo di inizio autunno, e della nostalgia per i parenti che ormai vede solo su Skype. Abita fuori città e per tenersi occupata fa ripetizioni ai figli dei pecorai nel tugurio in cui vive o il fenomeno da baraccone nelle scuole. Il marito ha una piccola impresa edile, anche lui è straniero, quindi parlano solo inglese. Io le dico che se vuole imparare l’italiano deve fare un corso e ascoltare tanta musica e tanta tv, e le regalo un paio di libri facili. O sarà costretta a rapportarsi solo con noi colleghe di inglese e il marito. Povere cose. Mi dà ragione. Le chiedo del programma didattico e mi confessa che sta avendo molte difficoltà nel far comprendere ai ragazzi la differenza di suono tra il “th” sonoro e il “th” sordo, che in italiano, si sa, non esiste. E se per un italiano, si sa, spesso sinonimo di ottuso, una cosa nel suo piccolo mondo manca, ecco che deve mancare ovunque. Le rispondo che io ho sempre risolto analizzando i testi delle canzoni ma esiste un metodo altrettanto semplice e divertente ideato da quel genio indimenticato di John Peter Sloan.
“Devi fare dei minuscoli foglietti di carta e metterli su una mano. Avvicini la mano alle labbra e pronunci una parola col ‘th’ sonoro e una col ‘th’ sordo. Tipo ‘This’ e ‘Three’. L’unica che farà volare il pezzetto di carta per lo spostamento d’aria. I ragazzini sono come scimmiette, imparano con l’esempio pratico. E facendoli divertire”.
Sorride, Judy, divertita. Com’è bella, e giovane, e dolce. Ci credo che il pecoraio se la sia portata via.
“Cool!”
Da quel giorno, ogni suo break lavorativo, anche di 5 minuti, diventò per noi un’occasione per due chiacchere in inglese. Ma anche in italiano, tra sorelle apolidi e innocenti, per il resto dell’anno scolastico. Sending my love, Judy.