La gente non è spiegabile solamente a prima vista
Il nostro era il bar meno frequentato della strada. Sicuramente tra i tre meno battuti del paese. Probabilmente tra i venti meno recensiti di tutta l’isola. Era su una via di passeggio che dalla piazza sul mare saliva verso il centro del paese. La strada era lunga trecento metri e noi stavamo in cima, che di metri dalla piazza la gente ne aveva già percorsi duecentocinquanta e di bar ne aveva incrociati almeno dieci. E poi, a dirla tutta, i baristi degli altri dieci stavano sul ciglio della strada e dicevano quelle cose tipo “Amico, paisà” e poi “bella signora!” oppure “Hey my friend” e ancora “Madamoiselle vous venèz a moi please” e altre frasi in lingue slave e germaniche incomprensibili pure per polacchi e teutonici, mentre noi ce ne stavamo seduti aspettando che il vento marino, per una sorta di diritto di nascita, ci portasse i clienti. Oddio, lo avremmo anche fatto, ma ci vergognavamo troppo a dire quelle cose in anglosassone e fiammingo.
Così ce ne stavamo seduti a guardare i pochi superstiti che arrivavano in cima alla via, gente che non aveva alcuna voglia di sedersi in un qualsivoglia bar, figurati nel nostro. Loro alzavano lo sguardo sulla nostra insegna e io leggevo il loro labbiale. In tutti quei mesi in cui non ho imparato a fermare i turisti slovacchi, ho invece avuto modo di conoscere come si pronuncia la parola “Buongiorno” in tutte le lingue indoeuropee. Perché il nostro bar si chiamava, appunto, “Buongiorno” e noi eravamo due italiani a Malta e i clienti una dozzina in tutto. Quasi sempre gli stessi.
Ora, io non so dire di preciso come questa gente capitasse nel nostro bar. Con il tempo mi ero figurato la strada come un imbuto che filtrava le persone in base a una sorta di presunta normalità. Del tipo: le persone considerate nella norma si fermavano all’imboccatura della via, quelli un po’ più strambi salivano di una decina di metri e così via. Le uniche gocce capaci di percolare da quell’imbuto sociale erano quindi gli scappati di casa, quelli che andiamo più su che sicuramente si paga meno, quelli che qui ci sono troppi francesi, i russi mi stanno sul cazzo e i negri parlano troppo forte, quelli che il cameriere ha la faccia da cazzo, quelli che non si decidevano mai e alla fine rimanevamo solamente noi. Quelli del “Buongiorno”. Ma in questo caso senza labbiale. Poi alcuni tornavano la sera dopo e quella dopo ancora. E questi erano i casi più gravi. Una dozzina come ho detto. Come i dodici apostoli.
Nessun eroismo e manco bonapartismo, molta di quella gente inizialmente mi faceva quasi ribrezzo. Speravo si togliessero dai coglioni il prima possibile. Il bar non era mio, era dell’altro. Che ci fossero o meno casi umani seduti ai tavolini a me cambiava poco. Loro si presentavano male e io avevo la mia bella corazza con il segnale di divieto a mo’ di coccarda sul petto. Se mi facevano domande personali non andava bene, se esprimevano giudizi li folgoravo con lo sguardo, se parlavano forte mi infastidivano, se si allargavano gli piazzavo un’occhiataccia, se erano soli al tavolino stavo dentro a lavare i bicchieri. Mi parevano ordinari, turisti di bassa lega, manco troppo belli a vedere.
Poi.
Una mattina ai tavolini c’era solamente una coppia di inglesi di mezza età. Erano tra i pochi frequentatori del mattino. La maggior parte degli apostoli arrivava solamente verso sera per bere intrugli che gli preparavo nella speranza andassero a vomitare a casa loro. Questi due si sedevano sempre allo stesso tavolino, sempre un paio di cappuccini a testa, sempre riviste di gossip. Lei una ventina di chili di troppo, lui un centimetro di barba ispida più del dovuto. Lei permanente anni ottanta, lui baffi anni settanta. Proprio no. Mi avvicinai per portare il secondo round di cappuccini e incrociai con lo sguardo la di lui rivista. Intravvidi allora la fotografia di un calciatore italiano, uno che aveva giocato nella mia squadra molti anni prima e poi era andato a svernare in Inghilterra.
Mi venne spontaneo. “I know him. He played for my favourite team quite a long time ago.” (Lo conosco. Ha giocato nella mia squadra un po’ di tempo fa)
Lo sguardo di entrambi si sollevò all’unisono. Cazzo ha parlato, devono aver pensato. Una volta ripresosi dallo schock l’uomo chiese: “Really? What’s your favorite team?” (Davvero? Qual’è la tua squadra?)
Raddrizzai la schiena e risposi guardando il cuoio capelluto tra i capelli radi ma ancora scuri.
“Parma. We’re not going very well, but we were a very good team in the nineties” (Parma. Non stiamo andando bene, ma eravamo una squadra forte nei novanta).
Allora ecco che intervenne lei con un accento del nord forte come l’aceto “Oh, so you’re always angry for this? (Oh, forse sei sempre arrabbiato per questo?)
Questa risposta mi folgorò. Imbarazzò. Ridevano e non sembravano tuttavia volermi perculare. Rincasai nel bar. Qualcosa mi rendeva inquieto. Lavai l’interno di una tazza tre volte e mai l’esterno. Come un attore a fine spettacolo sentii di dover uscire, concedere un bis. Mi misi sulla soglia ed aprii le spalle. La signora mi chiamò, mi fece vedere un tizio italiano questa volta sul suo tabloid. Questo chi era? Con chi se la faceva?
Fu la scintilla. Posai la corazza e mi sforzai di sorridere, lasciar perdere, commentare, bere al tavolino. Con il tempo imparai a conoscere loro e altri. La scaffalista e l’operaio dello Yorkshire. Quello che faceva il meccanico a Perugia. Quello che non vedeva mai la figlia ma se ne ricordava solamente da ubriaco. Non nego che i difetti c’erano e non scomparvero. Come il tizio napoletano che nonostante lo mandassi affanculo continuava a spegnermi le sigarette nelle tazzine del caffé. Però imparai che i panni degli altri sono più complicati di quanto sembri, che la complessità di una scaffalista di Middlesborough va ben più in profondità di una rivista di tabloid. La mia mancanza di umiltà, il mio dito indice puntato sempre sulla difensiva, ora li potevo buttare nel rudo insieme al resto, che tanto a Malta non si differenzia nulla e va tutto a mare.
Ero arrivato per fare esperienza, conoscere gente fica e lavorare in posti giusti. L’esperienza alla fine l’avevo fatta, ma era un po’ diversa da come me la immaginavo. Una volta tornato in Italia nel curriculum potevo elencare tra le skills: sono capace di abbandonare la mia posizione ed entrare in quella di un altro.
Credo di averlo scritto veramente in un CV. Era un ruolo di rincalzo, un lavoretto tanto per fare. Eppure c’avevano messo una selezionatrice con i contro cazzi. Ricordo gli occhi sgranati di fronte alla suddetta frase. Che non fece effetto alcuno perché non mi selezionò.
Ricordo anche il mio moto di stizza. Ma sì, chiamiamolo pure odio.
Che poi a ben vedere anche lei avrà avuto i suoi cazzi. E la gente non è spiegabile solamente a prima vista.