I luméri – 5 febbraio 2019
La cucina di nonna sapeva di sapore.
Certamente cucinava molte più cose di quante ne ricordi io, ma nella mia mente restano indelebili solo alcune che, a pensarci adesso, sono simbolo di momenti cruciali nella vita di un individuo: l’infanzia, i compleanni e le feste.
Pane, olio e zucchero era la merenda che offriva a me, mio fratello e mia sorella, tre borghesotti con la puzza sotto il naso, quando andavamo a trovarla e il viaggio in macchina ci sembrava interminabile, forse perché interrotto dalle pause vomito di mio fratello che soffriva il mal d’auto. Arrivavamo in quella casetta in collina come se l’avessimo fatta a piedi e la prima cosa che chiedevamo era l’acqua
completamente ignari che quei bicchieri che ci offriva valessero oro
perché spesso a casa di nonna l’acqua non arrivava, e poi del cibo. E lì avveniva la magia: a noi, abituati a schifare e gettare ogni sorta di bene commestibile, quel pane, spesso duro, cosparso di zucchero e inondato di olio, piaceva tanto, a tal punto che spesso chiedevamo a mamma di prepararcelo anche quando eravamo a casa.
Le lasagne, tirate a mano e cotte nel forno a legna, erano invece il piatto forte servito al compleanno di nonna. Sapevano di sugo, di fumo, di serate di luglio passate tra gente che alla fine non si conosce più di tanto e siede intorno a un tavolo a parlare il silenzio, mangiando un cibo di una bontà che non si può descrivere.
Ogni volta che le faceva, precisava che sarebbe stata l’ultima,
perché era difficile tirare la pasta a mano e preparare il forno. Ci sono state tante ultime volte, ma quella che realmente non ha avuto seguito è stata la più speciale, perché senza battere ciglio al mio Nonna però vedi che adesso sono vegetariana, lei aveva preparato il sugo senza carne e non aveva messo il prosciutto. E venti anni fa posso assicurare che non era una cosa così scontata.
A Natale arrivavano le nacàtole, fritte e cosparse di zucchero, una delizia, calde; purtroppo diventavano presto dure e mangiabili solo se inzuppate nel latte. Di conseguenza, vista la poca sobrietà con cui generalmente si calcola in Calabria il quantitativo di dolci da preparare per le feste, non era raro vedere papà che faceva colazione con le nacàtole anche a carnevale.
Poi arrivava Pasqua con le gute. Noi non le amavamo tanto, ma ci dimostravamo contenti di riceverle perché lei le faceva con molta dedizione: a forma di gallo o di pesce per i maschi, a forma di cestino per le femmine, con l’uovo sapientemente incastrato negli intrecci di impasto. I nostri sorrisi di circostanza non riuscivano a nascondere la fremente attesa per l’altro dolce pasquale, che amavamo di più: i lumèri. Dall’aspetto sicuramente meno bello delle gute, la loro forma richiamava quella di antichi lumini, in cui veniva versato dell’olio e con uno stoppino spesso creato con stoffa si illuminava la notte.
Per anni quei dolci sono stati semplicemente una cosa che mi piaceva, legati alla Pasqua e a nonna, anche perché li trovavo solo da lei.
E ancorarti alle tradizioni ti dà quell’illusione di riprendere una rotta tracciata, rifugiandoti in un posto sicuro mentre impazza la tempesta.
Un giorno chiamai nonna, perché volevo la ricetta delle lumiere. La delusione fu subito pronta a prendere il posto dell’entusiasmo: come tutte le nonne, credo di poter dire dell’universo, la mia non aveva ricette scritte. Eh!… Comu tu dicu? Farina, zuccheru, ogghju… comu ‘ncigna u nesci, i poi ‘mpastari.
E fu ed è così per tante altre ricette della tradizione.
Mi rassegnai all’idea di non poter ricreare quei dolci, non come li faceva lei intendo, anche perché il mio Prima o poi devo venire a vedere come li fai, non tenne in considerazione gli anni che passavano, né la morte di nonna.
Capii allora il valore delle tradizioni e il perché ci si lega ad esse: impedire al tempo di passare in fretta, cercando di trovare, nel suo scorrere, identità che hanno segnato chi c’era prima di noi, che era noi prima che esistessimo.
Non portare avanti una tradizione significava forse cancellare il passato che era stato presente, interrompendolo. Questa consapevolezza mi ha reso triste per parecchio tempo.
Nonna morì a febbraio.
mi resi conto che questi dolci erano speciali perché sembravano destinati a rivelare nel corso del tempo alcuni significati celati da un tiepido buio che pian piano si illuminava.
Anche l’anno scorso ho rifatto le lumiere. Era la seconda Pasqua segnata dal Covid. La terza che non c’era nonna. La quinta che non tornavo ad Ardore. La settima che non vedevo a ‘ffruntata a Bovalino Superiore.
Le avevo fatte di lunedì Santo. Ne avevo subito assaggiata una.
Non sapeva affatto di nonna. Il ricordo del sapore delle sue lumiere era sparito definitivamente, come definitiva era la rassegnazione al fatto che non avrei mai potuto avere la sua ricetta ormai.
Ma le lumiere servono a far luce.
Ho continuato a mangiarla, quando non era più bollente e i sapori si erano assestati. Era diversa dal solito.
Ed è vero che da quel giorno in poi non sapeva più di nonna: sapeva di me.
Ed era molto buona lo stesso.