Furto 35 – E la nave va
La casa va venduta, le aveva detto al telefono il fratello. La linea era come sempre disturbata, riusciva a sentire una parola ogni dieci.
Mi puoi chiamare per favore quando torni a terra, cosi riusciamo a parlare? E’ una cosa importante non ti pare? Aveva risposto lei.
Torno a terra fra sei mesi, Sara. Io in nave ci vivo, ti ricordi? Questa frase per miracolo era arrivata intera, come un colpo di fucile. La casa dei nostri genitori va venduta, io a terra non torno. Fine della comunicazione.
La nave, lei immaginava, doveva essere come quella del grande quadro appeso sul divano del loro vecchio soggiorno: lo scafo rosso. Il mare in tempesta. Quando erano bambini e il padre tornava dai suoi viaggi sempre, sempre, la prima cosa che diceva loro era: copritevi, ragazzi, mettetevi la sciarpa. Andiamo sul molo a prendere il vento. Non il sole, il vento.
Ed era cresciuta così, Sara, con il bisogno di sentire addosso il calore di qualcosa, avvolta come in un abbraccio, che la mancanza di qualcuno è solo illusoria, superabile. Ogni tanto chiude gli occhi e disegna i contorni di una madre ormai sbiadita, persa fra le onde, le stesse onde che l’hanno inghiottita quella lontana sera di maggio. Suo padre li aveva avvisati, non sarà una notte facile, e su quella barca rossa sembrava che solo lei avesse paura della voce del vento. E poi il silenzio. Interrotto dal pianto di Andrea, che di quella notte ricorda solo uno schiaffo in pieno volto, i colori si usano sul foglio, non sulle assi di legno. Aveva solo quattro anni, troppo piccolo per ricordare ma già grande per assorbire e filtrare, come una spugna che lascia andare via l’acqua ma rimane bagnata. Spesso chiede a Sara di parlargli della madre, e lei si ritrova libera di raccontare andando fuori dai margini, colorando le sue storie. Copritevi, ragazzi, mettetevi la sciarpa. Andiamo sul molo a prendere il vento. Non il sole, il vento. Sara ha sempre detestato il molo. Ci andava solo perché Andrea si divertiva a tirare i sassi. Suo padre invece si allontanava, assorto in un limbo, come quando si oltrepassa un ponte fatto di ciottoli di ricordi, e di tempo, e di se, e di semmai, un ponte fra ciò che era e ciò che non sarà.
Era maggio anche quando Andrea disse a suo padre che aveva deciso di partire, di avere come casa il mare. Lui sembrò non ascoltarlo, gli strinse la mano, tua madre ne sarebbe andata fiera. Andrea ci credette. Sara rimase con suo padre per altri sei anni. Andrea, papà è scomparso. Andrea dimmi che hai capito. Papà è scomparso. Era in mare, la comunicazione come al solito non andava. Andrea si ritrovò improvvisamente troppo grande per non ricordare, ma ancora piccolo per riuscire ad assorbire e filtrare. La perdita di una famiglia è la perdita di se stessi, della propria identità, è un po’ come tornare bambini a gattonare, con mani e ginocchia a scoprire il mondo perché solo i piedi non bastano più. È avere mal di mare senza averne mai sofferto. È avere un dolore e non sapere da dove arriva. E allora perché vendere casa senza provare a ricostruire un ricordo. Perché non ricominciare e avvolgersi braccia contro braccia e andare sul molo a sentire il sole.
Andrea io casa non la vendo. Sono qui, ti aspetto. Scopriti, Andrea, togliti la sciarpa. Andiamo sul molo a prendere il sole. Non il vento, il sole.
Foto 1 e 2 di Maksim Romashkin da Pexels
Foto di copertina Isaac Garcia da Pexels
Racconto partecipante al contest 2021 Battute organizzato dal Teatro Kismet di Bari (incipit di Concita De Gregorio)