I mesi più lunghi
In verità la frase del mio collega non mi giungeva nuova. Ero sicuro di averci già pensato a questa cosa, ma lì per lì non ci avevo dato troppa importanza. Sì, dev’essere stato il due o il tre del mese. Ero seduto e avevo un gomito sul tavolino, l’altro sullo schienale, la schiena inarcata in avanti e lo sguardo alla finestra. Erano le due e trenta del pomeriggio e la luce pareva fare alla moda di quegli impiegati che un’ora prima di timbrare il cartellino iniziano a riordinare penne e fogli volanti. Sul piatto girava un vinile dei The Jesus and Mary Chain. E poi mi prudevano i genitali.
Non è vero niente. Dalla parola “mese” in poi sono tutte balle.
Non lo possiedo nemmeno un vinile dei The Jesus and Mary Chain.
Mica ricordo se stavo seduto o in piedi. Ricordo solamente che uno dei primi giorni dell’anno avevo questo calendario del 2021 in mano e pensavo al fatto che in tutti quei mesi passati non ci avevo mai dato importanza a cosa ci fosse scritto sopra. Avevo guardato solamente i giorni. Ma poi nemmeno quelli. Una volta ho girato sul mese di marzo che era già il 21. Era il calendario di un supermercato della zona. Vorrei scrivere che ricordo il colore dei capelli della commessa che un anno fa me lo consegnò, ma so già che ormai non mi crederete più (comunque era bionda non naturale e si chiamava Denise, se non ci credete fatti vostri). Ho iniziato a sfogliare l’almanacco e a leggere cosa il supermercato avesse proposto per ogni mese. Iniziando ovviamente dai primi mesi, che ricordavo essere stati infiniti. Mesi che, come ogni anno, il moto di rivoluzione della terra mi avrebbe riproposto.
“Non ci sono più feste fino a Pasqua” ha detto lui.
“Quando è Pasqua?” ho chiesto io. Il maglione di lana mi punzecchiava il collo.
“Sono tre mesi oggi. Oggi è il 17 gennaio. Pasqua è il 17 aprile. Tre mesi precisi” ha risposto. E si è sistemato la mascherina.
“Tre mesi precisi” ho ribadito io. L’indice ha sfiorato il bordo di un banco. C’era un gran silenzio, ma presto in quella stanza sarebbero arrivati ragazzini da ogni parte del quartiere.
“Tre lunghi mesi” ho detto ancora. La mano si è chiusa a pugno e le nocche hanno picchiettato tre volte sul banco.
Tre mesi di lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato pressoché identici. La domenica è una cosa a parte che chi di dovere poteva anche lasciar perdere, quindi non la considero nemmeno. Niente pause, niente pit-stop.
È allora che mi è tornata alla mente la storia del calendario.
Inutile negarlo, questi sono i mesi più lunghi dell’anno. Le giornate sono corte, le attività si limitano all’indoor, le persone sono indaffarate o forse fingono di esserlo come antidoto alla noia, alla mancanza di luce, alle pagine del calendario che si fanno lunghe, ai Santi patroni che nessuno festeggia perché fa un freddo cane, ai programmi obsoleti in televisione, ai plaid appallottolati sul divano, alle serie tv abbandonate alla terza puntata, agli aperitivi del sabato giusto per far qualcosa, alle foglie marce sulla strada, agli autobus accesi al capolinea per trattenere il calore, alle passeggiate con il cane in prossimità di casa. Quando ero bambino la noia raggiungeva livelli apicali in questi mesi dell’anno. Si può dire che è il periodo dell’anno di cui conservo meno ricordi, quasi come se l’unico obiettivo fosse lasciar scivolare via al più presto quelle giornate bigie fatte di scuola e altri impegni sempre uguali a sé stessi. Stesso giorno e stessa ora. Ieri ho visto un vecchio video di una partita di calcio di qualche anno fa. Era stato postato in quanto era l’anniversario di quel match. C’ero, ricordo benissimo. Una grande vittoria. Anzi no, forse non ricordo così bene perché io avrei giurato fosse dicembre. Invece era gennaio. Nei gangli del mio cervello ci dev’essere un algoritmo fallato che impedisce alla mente di archiviare le cose belle nei primi lunghi mesi dell’anno.
“Ti piacciono i primi mesi dell’anno?” ho chiesto a un ragazzino. Sentivo il mio alito condensarsi tra la mascherina e il naso.
Lui ha allargato le braccia ad abbracciare il banco nella sua larghezza e ha fatto spallucce. Che gli frega a lui. Anche meno superficiale, avrei voluto dirgli. Ma vabbè.
“Non ti annoi?” ho insistito.
“Gioco alla Play” mi ha detto lui. E ha richiuso le braccia al petto.
“Giochi alla Play” ho ripetuto. “E a cosa giochi?”
“A dei giochi” mi ha risposto. E ha appoggiato la fronte al banco nella speranza che negandomi lo sguardo mi levassi dai coglioni. Allora ho fatto qualche cenno di assenso con la testa, poi ho girato le spalle e mosso qualche passo altrove.
Il calendario. Il calendario poi alla fine l’ho buttato. Per ogni mese c’era una ricetta diversa. Prima di buttarlo ho deciso di leggerne qualcuna. Così, giusto per dare un contentino al grafico del supermercato o forse perché ogni anno ha qualcosa da salvare e magari ce ne accorgiamo l’anno dopo. A gennaio c’era una cheesecake, a febbraio arrosto con carciofi, a marzo una pasta con qualcosa che non ricordo manco più. L’anno scorso, in quel gennaio di cheesecake, c’era il lavoro (per chi lo aveva), la casa (per chi la aveva) e niente più. Quest’anno le cose vanno in generale un po’ meglio. Però tra 17/01 e 17/04 ci sono di mezzo tre lunghi mesi. Cento giorni in cui lentamente si allungheranno le ore di luce e la temperatura si alzerà. In cui occorrerà pensare al futuro, programmare il domani, che noi non siamo formiche e ci dobbiamo fare trovare pronti ai blocchi di partenza nella bella stagione, non in quella del letargo.
Sono tanti cento giorni se hai un plaid appallottolato sul divano, l’abbonamento a Netflix scaduto, se questa cosa del farti trovare pronto ti spaventa un po’ e non hai una Play con cui giocare a dei giochi né un calendario gentilmente concesso da una bionda non naturale. O un vinile dei The Jesus and Mary Chain.