Tre
In onore all’ultimo lavoro di un’autrice che amo molto, Valérie Perrin, che ha questo titolo, e in virtù del fatto che questo è il mese in cui di solito dò i numeri, metto qui tre miei ricordi, a fare da didascalia a miei momenti di vita vissuta e masticata e mai dimenticata. In ordine cronologico, tre episodi legati, per una volta, a maschi gentili. E sensibili. Ogni episodio ha il nome del protagonista.
1. Lino
Qui sono ubriaca, a un antico capodanno passato in una seconda casa coi miei compagni di università. I miei scudieri Cristina e Maurizio sempre accanto. Li amavo moltissimo, i miei clown personali. Il ragazzo in secondo piano che mi fissa amorevolmente è il cugino milanese di un altro compagno, Lino. Sagittario, erre moscia e occhi nerissimi. Sto parlando di trent’anni fa, e lo ricordo come fosse ieri. Gli piacevo; ovviamente io ero fissa sulla cotta per il cugino americano del mio prof, che non mi cagava di striscio, e non vedevo altro. Ma Lino era tanto dolce, e paziente. Un po’ più grande di noi, e non aveva fatto l’università. Di inglese e libri non sapeva molto ma ci teneva testa tranquillamente. Nei tre giorni che restammo in quella casa, nei pressi di Tarquinia, non mi mollava un attimo. Mi aveva accompagnato persino quando sul bagnasciuga in spiaggia andavo cercando sassi belli da portare a mio padre, che ne faceva collezione. La sera cantavamo Baglioni e Battisti sulla chitarra stonata di Maurizio, e la notte dormivamo tutti per terra nei sacchi a pelo, come fratelloni. Lino appiccicato a me. Ma senza provarci, o lo avrei arrotolato come un futon, allora facevo judo. A lui bastava affondare il naso nei mei riccioli bruni, raccontarmi la bellezza delle campagne monzesi e le meraviglie della sua Renault 4 rosso fuoco. Mi piaceva sentire la sua erre moscia e la voce profonda, e non mi scomponevo per l’erezione che ogni tanto notavo, dormivamo a cucchiaio. Io pensavo all’americano, ero al sicuro da altri innamoramenti. Idiot. Ma se solo avessi voluto, Lino mi avrebbe portata a Monza con sè, anche subito. Invece ci lasciammo, dopo quei pochi giorni di baldoria, per non incontrarci più. Gli mando il mio amore da qui. Da ora. E lo ringrazio per il rispetto e la pazienza che l’uomo che lui era allora mi dimostrò.
2. Stefano
Qui sono in un delizioso bistrot di Monteporzio Catone, non ancora coinvolta in qualche coppia tossica, ancora studentessa e corista-percussionista “a sentimento” in varie band universitarie, per pagarmi le vacanze-studio. La musica, dopo i miei libri, era quello che amavo di più. Ancora ricordo i sassi pazzeschi di cui era lastricata la strada per arrivare al locale, trascinando strumenti e colleghi riluttanti coi tacchi e il freddo; dovevamo esibirci con le nostre specialità, cover di classici napoletani in versione jazz. I miei compagni, tutti studenti di conservatorio eccezionali; l’unica cialtrona, moi. Il ragazzo dietro la mia immagine rosso rampante, nella foto, suonava con noi come bassista, al conservatorio studiava il violoncello. Essendo complicato e pazzoide, ovviamente avevamo legato da subito. Ero il suo sportello psicologico preferito e il suo Cupido, visto che gli avevo presentato la fidanzata, una mia collega di studi. Ricordo le corse in macchina verso le prove, sbagliando strada per i suoi mental breakdown, e i suoi racconti di bambino misfit come la sottoscritta, a Roma per caso, nato a Bassano del Grappa da famiglia napoletana. Ricordo quando mi confessò di avere beccato il suo amico del cuore, nostro leader e pianista strabiliante, sposato e padre da anni, sbavare dietro una cugina appena maggiorenne (ma guarda un po’), quasi ad avvertirmi. Ero appena maggiorenne e molto carina anch’io. Lo tranquillizzavo assicurandogli che con le mie arti marziali, ero anche una buona cintura, in caso gli avrei ficcato la testa dentro la tastiera. Era pure più basso di me, coi tacchi… ridevamo tanto, io e Stefano. Che un giorno mi prese la mano, piantandomi i due occhi blu in viso e confessando di amarmi da mesi. Ma io no, cazzo. Io, no. Per me lui era un fratello, da mesi. Il fratello maggiore che avrei tanto voluto. Gli mentii per non farlo soffrire troppo, dicendo di essere impegnata, e gli rammentai che anche lui… e mi rispose:
“Lo so, e mi dispiace… ma che posso farci, se io amo te? Nessuna è come te… comunque, se cambiassi idea io ci sono, sempre”.
Non la cambiai. Ovviamente. Ma riuscimmo a mantenere l’amicizia . Perché l’affetto supera l’amore. Perché l’affetto é, amore. Lavorammo ancora qualche mese insieme e poi ci perdemmo di vista. Lui preso dagli esami in Conservatorio, l’amico pianista probabilmente iscritto a YouPorn, e io tra le grinfie dell’uomo che avrebbe quasi polverizzato il mio essere. Un altro musicista. Due occhi blu di angelo caduto, ben diversi da quelli buoni e incoscienti di Stefano. Che si era dimostrato un grande, all’epoca. Un coraggioso. E io la solita idiota.
3. Marcello
Foto e racconto numero 3. Finalmente laureata e giovane insegnante piena di entusiasmo. Dopo una breve esperienza come prof di letteratura inglese alle superiori, rispolverando il mio diploma magistrale avevo scelto di abdicare al trono professorale per rimanere alle elementari, un po’ per la mia esigenza di essere adorata come una divinità (Ariete / Leone, ego ipertrofico), e un po’ per lavorare giocando, usando teatro, canzoni, pittura da abbinare alla mia materia. In più avevo trovato una scuoletta sotto casa immersa nel verde e nel sole. La mia dimensione ideale. In una di queste giornate di sole, sempre nel periodo natalizio, impegnata a far memorizzare “War is over” di John Lennon per la recita di Natale, mi piomba in classe Marcello il bidello – bello. Che ora si chiamano collaboratori scolastici, allora ancora no, parbleau. Marcello tiene per un braccio, da entrambi i lati, due dei miei delinquenti di otto anni circa, bagnati come pulcini. A questo spettacolo silenzio Lennon sul registratore coatto anni 80 e mi pongo in posizione di ascolto.
“Maestra, se li riprenda, per favore! Li, li ho trovati in bagno – e inizia a balbettare – che si stavano lanciando i palloncini tipo bombe d’acqua… ecco, mi hanno pure fracicato a me!!!”.
Oddio, penso, gli avranno rovinato la messa in piega… una tragedia. Perché Marcello era davvero bello, nella sua categoria assolutamente un fuoriclasse. Alto, elegante, profumato, galante. Lo avevo persino convertito alla lettura e gli passavo i libri mentre i colleghi si stordivano col gossip dei giornaletti. Per questo, soprattutto, mi era affezionato. Per il mio rispetto profondo della sua figura e la solarità. Cercava di ricambiare passandomi ricette, salentino del Toro pensava sempre a magnà, ma lì non gli davo soddisfazione, ahimè. Quando non leggeva si teneva impegnato con le telefonate piacione o i complimenti alle giovani madri, o specchiandosi in qualunque superficie riflettente, dalle vetrate all’acqua del secchio per i pavimenti. E non dimenticava mai di darmi del lei, e il buongiorno ogni mattina. Tornando alle bombe d’acqua:
“Ecco, Maestra, si riprenda questi delinquenti, ho un lago nel bagno da asciugare, grazie a loro…”.
I ragazzini si liberano dalla presa per correre da mamma chioccia, li placco e inizio ad asciugargli le teste con lo scottex. Marcello è un fiume in piena sconvolto:
“Gli dica qualcosa, la prego, li ho dovuti inseguire per tutto il corridoio e quando li ho acchiappati uno di loro mi ha urlato contro, ecco, lo devo dire… che cazzo voi da me, troione?”
A quel punto non so quale santo mi impedisce di ridergli in faccia, ci pensa il resto della classe, un boato. In effetti, quello era assolutamente l’appellativo giusto per definirlo, il buon Marcello. Ai bambini nulla sfugge, mai. Ma era un uomo gentile, con me sempre collaborativo ed educato. Non meritava un trattamento simile. Attacco uno dei miei predicozzi migliori e concludo, rivolta ai delinquentucci:
“Adesso chiedete scusa al signore, forza. Che dovrà stare ore a sistemare i vostri danni, anche”.
Il giorno dopo li costrinsi a scrivergli un biglietto di scuse, che mi costò la promessa di tenerli 20 minuti in più in giardino, e che gli consegnarono insieme a un classico della serie Urania, dato che era appassionato di fantascienza. E tutto ritornò alla normalità. Dolce Marcello, ormai in pensione da anni. I suoi sostituti senza confronto. Anche se “collaboratori”. Brutti, volgari, malmostosi e invidiosi. Per non parlare dei colleghi. Ad maiora.