ViSo-Visuale Sociale: la tossicodipendenza vista dalle giovani generazioni
Il progetto di ViSo nasce da un’idea di Valeria Marchese, promosso dall’Associazione Culturale Poesie Metropolitane e in collaborazione con Facciunsalto. Lo scopo della rubrica è quello di analizzare eventi e aspetti sociali attraverso un’intervista dedicata ad autori che hanno deciso di scrivere in merito a tematiche d’attualità o dibattito. La conversazione sarà avviata a partire da un breve componimento, in prosa o versi, firmato dal poeta.
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Questo appuntamento approfondirà un tema molto delicato, ovvero quello della tossicodipendenza. Si è espressa in merito Anna Sverko, poetessa torinese di 55 anni, madre di famiglia che nel tempo libero dal lavoro e dalle cure familiari si dedica alla scrittura; ha pubblicato la raccolta “Universo, mondo, una città” durante la prima pandemia.
Le balene muoiono sulla spiaggia,anche i ragazzimuoiono sulla spiaggia a volte,con le loro anime di vetrosognando un sognoch’è abisso e vorticee sorridendo li divora.
In merito al rapporto che i giovani hanno con la droga, pensi che in qualche modo la “normalizzazione” del fenomeno da parte dei media o dei social abbia contribuito alla diffusione di questa abitudine? Sono tanti i testi che parlano non solo di droga, ma anche della denuncia verso questi comportamenti di “show”, come Abauè ad esempio, di Margherita Vicario. Inoltre anche sociologi di un certo spessore, come Lombi e Bertolazzi, hanno parlato di come la normalizzazione mediatica abbia contribuito a rendere l’utilizzo di sostanze stupefacenti non più come un atto stigmatizzante e deviante, ma bensì normalizzato, quasi assistendo ad un sopravvento delle subculture.
«Sono molto d’accordo in merito a questo cambiamento della droga e della sua concezione nel corso del tempo. La poesia, come ti ho detto in descrizione, l’ho scritta molti anni fa e la sento molto legata a quel periodo, questo perché negli anni Novanta c’era un uso smodato di eroina, mentre invece adesso è diffusa prevalentemente la cocaina in un comportamento spesso anche normalizzato.
Sono un’assistente sociale e non ti nego che ho sentito non pochi colleghi che si esprimevano a favore di queste sostanze, attribuendo loro un “uso ricreativo” al quale mi sono sempre opposta, perché nel consumo di sostanze stupefacenti ho sempre individuato degli tentativi estremi di rifuggire alla propria sofferenza e ricercare conforto altrove.
Molto spesso, la giustificazione posta verte anche sulla “libertà di scelta” del singolo che, in quanto autonomo, deve essere libero di intraprendere la strada che ritiene più giusta. In realtà, come sappiamo bene, quella delle droghe non è altro che una finta libertà di scelta, non c’è niente di libero in una dipendenza, soprattutto dato che questa spesso scaturisce da condizioni ambientali esterne all’individuo oppure da forti situazioni di malessere interiore.»
Quali politiche sociali e socio-sanitarie si profilano come più adatte a prevenire ed affrontare il problema della tossicodipendenza?
«È una domanda molto ampia e ci sarebbe tanto da dire e soprattutto da fare. Secondo me ci vorrebbe tutto ciò che non abbiamo visto in questi anni: un rinforzo delle politiche a sostegno delle famiglie ed un’educazione capillare.
La poesia, legata alla mia esperienza, è dedicata a ragazzi che erano spesso da soli, giovani che solo venuti su senza la presenza delle figure genitoriali come punto di riferimento; di conseguenza, l’assenza scaturisce in un malessere che diventa nido per la proliferazione di determinate situazioni. Un’altra categoria da menzionare soprattutto è quella degli italiani di seconda generazione, anch’essi spesso lasciati da soli nella loro emigrazione.
Anche il lavoro nelle scuole può essere un’alternativa molto valida: i ragazzi sanno che c’è la droga ma gli strumenti di prevenzione non sono rafforzati, si necessita di un lavoro molto più specifico e ben indirizzato. Soprattutto quest’anno si è risentito molto di questa mancanza, a causa dapprima di un prolungamento dello stato di emergenza, ma anche per i forti tagli adoperati nei confronti dei servizi pubblici, i quali non riescono più a stare al passo con le esigenze dei cittadini.
A Torino in questo settore siamo tutti operatori al di sopra dei cinquant’anni e sarebbe bello vedere persone giovani, per la loro ondata di energia e per il loro contributo al gruppo.»
Strumentale e performativo, uso ricreazionale ed eudemonistico, uso come autocura e come medicalizzazione del vivere quotidiano, può variare a seconda dei contesti. Quale pensi sia il più diffuso?
«Dipende dalle categorie: direi che l’uso dell’alcol tra i giovani è utilizzato con finalità performative e ricreative, per integrazione nei costumi sociali, dunque per essere parte del gruppo e non restare indietro. L’uso della cocaina invece riguarda l’aumento delle proprie prestazioni. Credo che l’aspetto curativo rappresenti davvero una minima percentuale di queste statistiche, prevalentemente si ricerca la sensazione di forza, di potenza, soprattutto per quanto riguarda persone che presentano evidenti fragilità.»
Secondo te, la legalizzazione della cannabis può contribuire al “disincanto” delle sostanze stupefacenti, evitando così di avvicinare i ragazzi al mondo degli psicofarmaci?
«Secondo me la legalizzazione può aiutare molto. C’è parecchia illegalità in questo settore che parte dai margini per poi toccare aspetti di dipendenze ben più profonde. Comunque la differenza tra cannabis e cocaina è notevole, e relegare la prima ad un circolo di illegalità rischiando che i giovani si avvicinino con più facilità a sostanze più forti è sicuramente un’ipotesi da prendere meglio in considerazione.
La legalizzazione controllata potrebbe anche aiutare a salvare da ambienti problematici le persone che sono coinvolte nel commercio di tali sostanze e che dunque rientrano a far parte di questa grande economia sommersa.»