Gli invisibili del marciapiede: la storia di Stefano Rizzotti raccontata da Donatella Garnero
Il progetto di ViSo nasce da un’idea di Valeria Marchese, promosso dall’Associazione Culturale Poesie Metropolitane e in collaborazione con Facciunsalto. Lo scopo della rubrica è quello di analizzare eventi e aspetti sociali attraverso un’intervista dedicata ad autori che hanno deciso di scrivere in merito a tematiche d’attualità o dibattito. La conversazione sarà avviata a partire da un breve componimento, in prosa o versi, firmato dal poeta.
Nella giornata dell’Epifania, l’articolo di questa settimana volge lo sguardo agli “invisibili” della nostra società, ovvero i clochard. In merito al tema si è espressa Donatella Garnero, poetessa torinese interessata ai temi sociali che per l’occasione ha scritto “Il barzellettiere”, dedicata al signor Stefano Rizzotti , clochard conosciuto nel 2019 durante la sua attività di assistente sociale. Dopo la morte della madre, il signor Rizzotti aveva subito uno sfratto dalla propria abitazione. Non era più riuscito a pagare l’affitto, e si era ritrovato senza casa. Senza lavoro. Senza affetti. Senza
nulla, con un’anima bambina e fragile che lo animava a girare per la città con un cartello che diceva “Vendesi barzellette” appuntato sul petto, guadagnandosi l’affetto dei passanti di Piazza Carlina. Stefano è deceduto il 28 gennaio 2021 e sono a lui dedicati questi versi.
Un tuffo al cuore
nel leggere le parole.
L’uomo con la falce
ha rapito il tuo volto randagio.
Ti ho cercato
nelle orme cancellate,
nell’ombra di un albero senza radici,
buttato nei fossi dei giardini.
Quante notti hai sostato nel freddo,
tra le pieghe di un letto di carta.
Ho visto un dolore travestito,
avvolto in storie declamate
a rallegrare volti mascherati
e a ripulire dai sassi il cuore.
Le membra han cessato
di inseguire ricordi
di fessure di cielo tra i muri,
o miraggi di calde carezze
dietro la finestra accesa.
Terrò a mente te e i tuoi sogni,
naufragati in un bicchiere.
«Tengo a mente te e i tuoi sogni. A partire da questa frase, se tu dovessi lanciare un messaggio alle istituzioni per dare una svolta alla vita di queste persone, su quale aspetto ti soffermeresti?»
«Mi soffermerei sulla responsabilità che queste hanno nei confronti dei soggetti più deboli. Una responsabilità che si fonda non sull’assistenzialismo bensì sulla salvaguardia di diritti esigibili, prima di tutto il diritto al rispetto della dignità umana, oltre che i diritti di cittadinanza.
Quello dei senza fissa dimora è un fenomeno sociale complesso e spesso sfuggente, come lo sono pure i suoi attori protagonisti: difficili da intercettare e da raggiungere, ma soprattutto difficili da coinvolgere. Di fronte ad una tale complessità, i servizi fanno fatica a progettare interventi capaci di farsi carico delle necessità di questi individui, e forse troppo spesso l’approccio è di natura emergenziale, mentre invece appare necessario agire in maniera strategica al fine di sviluppare interventi di soccorso organici e strutturati, in grado di programmare e assicurare prestazioni appropriate, oltre che uniformi a livello nazionale.
Nel definire tale fenomeno ci basiamo su una somma di deficit, su una mancanza di risorse materiali, personali e relazionali. Il senza tetto è una persona definita per difetto: innanzitutto senza casa, ma anche senza identità, senza progettualità per il futuro, senza relazioni stabili, senza visibilità, senza possibilità di parola.
Credo che, per dare una svolta alla vita di queste persone, occorra avere come riferimento ciò che c’è, non solo ciò che manca. La sfida per le istituzioni consiste, innanzitutto, nell’attivare un lavoro di rete organico, flessibile, aperto alle richieste provenienti da questa particolare utenza.
La crisi economica dell’ultimo decennio ha estremamente indebolito le tradizionali reti di supporto parentali e amicali e mutato di fatto il profilo di coloro che possono scivolare nella povertà più estrema perché non in grado di far fronte ad eventi traumatici della propria esistenza.
Un altro aspetto su cui mi soffermerei è la necessità di realizzare un capovolgimento di mentalità: l’obiettivo ultimo non deve più essere soltanto dare un riparo, un tetto. Garantire una sistemazione sicura è il punto di partenza per giungere a un obiettivo diverso, ovvero la piena autonomia e realizzazione dell’individuo che si trova in una condizione di estremo disagio sociale, economico ed abitativo ma che non per questo perde i propri diritti a realizzarsi ed a vivere una vita serena. A tale scopo accanto ai tradizionali dormitori occorre sviluppare altri servizi dalla dimensione più dignitosa, quali gli “housing sociali”, maggiormente in linea con questa nuova visione. Altro aspetto, non meno importante, è quello di favorire un reinserimento nel mondo del lavoro a lungo termine delle persone appartenenti a categorie svantaggiate. Tirocini e borse lavoro dovrebbero essere pensati per garantire reali opportunità di assunzione e non solo la temporanea illusione di un lavoro.
In una parola mi soffermerei sulla necessità di ridefinire gli strumenti di intervento per promuovere una nuova visione dell’assistenza non più basata sulla gestione dell’emergenza e sull’assistenzialismo ma volta a supportare e ad accompagnare la persona verso il superamento della propria condizione di bisogno e la propria realizzazione personale.
«Pensi che il problema dei clochard sia vittima di un sistema pietista? Nel senso, si agisce nei loro confronti mossi da interessi di pietà e non di vero attivismo sociale o di riscatto, soprattutto nel periodo delle festività natalizie?»
Spesso nell’immaginario collettivo il “barbone” o “chochard” è colui che ha scelto una vita libera, lontana dagli schemi imposti dalla società, o un fannullone che sfugge alle responsabilità di una vita normale accontentandosi di vivere alla giornata, chiedendo l’elemosina. Si tratta di stereotipi tendenti a mantenersi stabili nel tempo, ma ormai lontani dalla realtà.
Un tempo si era soliti associare la condizione del senza tetto ad un trascorso di profondo disagio che esponeva le persone al rischio di finire per strada, ma oggi non è più così e chiunque può cadere in tale condizione. Oggi spesso chi diventa “chochard” proviene da situazioni di normalità.
Si tratta in maggioranza di uomini, con un’età media che va dai 45 ai 50 anni. Le cause scatenanti tale condizione possono essere: la separazione dal coniuge e/o dai figli, la perdita del lavoro, e quindi della sicurezza abitativa e la conseguente rottura dei legami sociali e familiari.
Direi che il problema non sia quello di essere vittima di un sistema pietista. Forse questo accadeva in passato quando l’assistenza ai poveri ed ai mendicanti era appannaggio esclusivo delle istituzioni caritative e religiose, in un’ottica incompatibile con la moderna idea di cittadinanza sociale.
Tuttavia credo che abitualmente assistiamo ad un mancato riconoscimento del problema. In questo momento storico sembra prevalere la paura, la diffidenza, l’esclusione (si vedano i fatti accaduti a Torino: persone senza dimora cacciate per ripristinare il decoro della città e “ripulire” il marciapiede occupato).
La collega Vera Barzizza, mediatrice familiare e penale, ha scritto un articolo apparso su Blog Notizie a maggio 2020 dove parla di “deumanizzazione per invisibilità”. E’ un processo che si esprime attraverso il silenzio, la disattenzione, l’indifferenza, che annullano l’importanza dell’identità personale e sociale. Si tratta di una deumanizzazione sottile, che permette alla società civile di distogliere lo sguardo: facendo più o meno finta di non vedere, ci si nasconde dietro il “così vanno le cose”, evitando un’assunzione di responsabilità di fronte alla «deprivazione di umanità che colpisce i meno fortunati».
«Quali sono, secondo te, i capisaldi della nostra vita? Quelli che ci permettono di restare vivi e degni, ma soprattutto fungono da punto di riferimento?»
I capisaldi della nostra vita, secondo me, sono le relazioni.
Rimanere senza casa oggi non significa soltanto non avere un tetto sotto il quale ripararsi; significa soprattutto essere privati della propria “dimora”, che è molto di più dell’abitare: è quello spazio di rapporti interpersonali che consentono alla persona di “vivere” un territorio, di sentirsene parte integrante e vitale. Essere senza casa significa, per molte persone, sprofondare in una condizione di solitudine, diventare invisibile, perdendo così la propria identità.