U’ Jimbu
Àrzati, ca ti veni u’ jimbu!
Mio padre me lo ripeteva spesso da bambina, quando non avevo il metabolismo di una quarantenne, ma ero un’acciughina alta un metro e settanta. Forse perché ero abbastanza sopra la media dei miei coetanei e il fatto che fossi gracilina mi portava a non sostenermi correttamente. E, un po’ come quando si dice andando con lo zoppo impari a zoppicare, stando con persone più basse di me, cercavo sempre di raggiungere la loro altezza,
ma questo significava piegarmi.
Guardandomi allo specchio stamattina, con la schiena nuda, ho notato che alla fine u jimbu, la gobba, ce l’ho davvero. Non è una gobba vera e propria, è più un rigonfiamento appena finisce la linea del collo, che non si appiattisce neanche sforzandomi di stare dritta. Magari avrà anche un nome anatomicamente, però io lo ignoro. Non so denominarla, ma so che quella è la parte del corpo che più mi rappresenta: mi sono sempre piegata per raggiungere gli altri, che non erano mai al mio livello.
Ma, attenzione: non significa che fossero persone peggiori di me, significa semplicemente che ci trovavamo su piani diversi. Penso che questa sia un’attitudine che ho talmente interiorizzato al punto da ritenerla normale. Non solo: se incontro qualcuno che è al mio stesso livello non mi ci so relazionare, non lo guardo neanche negli occhi, ma rivolgo il mio sguardo in basso, verso chi non si trova nella mia dimensione.
Ne parlo spesso col mio terapista, di questa mia tendenza a compiacere gli altri, che mi ha portata a non riconoscermi, a non sapere neanche chi sono o, meglio, come sono.
Già. Ed è maledettamente facile ormai piegarsi. Quello che fa male è distendere ogni muscolo rattrappito, unire le scapole così lontane tra loro, alzare la testa, e guardare nel vuoto. Sì, nel vuoto. Perché davanti a me, oggi, non c’è nessuno. Mentre in basso ci sono tutti i miei affetti, quelli importanti e quelli meno cari. Sono tutti là. E io sono in un qua dalle coordinate sconosciute. Ci ho provato tante volte a non soccombere al mio jimbu, fallendo. Questo perché nell’alzarmi tendevo a guardare in alto: ancora una volta non guardavo alla mia altezza.
Anche oggi ci sto provando, ma so che c’è qualcosa di diverso.
Oggi non guardo né in alto né in basso: guardo avanti!
Le mie spalle sono nude e fa freddo in questo inverno che non si capisce quando sia iniziato o finirà. Ho paura, sto tremando, sono stanca, ma ci sono. Guardo e mi guardo in questo altrove dove nessuno sembra conoscermi, ma tutti hanno la pretesa di poterlo fare. Il mio jimbu adesso è corazza di tartaruga, e se a volte fa male, mi ci faccio una carezza. E non cerco più di farlo andare via. Lo porto con me il mio jimbu, perché ricordandomi chi ero e chi non voglio essere, mi accompagnerà a scoprire chi sono.