ViSo-Visuale Sociale: l’esportazione della democrazia e la questione afgana
ViSo-Visuale Sociale è la nuova rubrica di Poesie Metropolitane curata da Valeria Marchese in collaborazione con Facciunsalto.
Lo scopo della rubrica è quello di analizzare eventi e aspetti sociali attraverso un’intervista dedicata ad autori che hanno deciso di scrivere in merito a tematiche d’attualità o dibattito. La conversazione sarà avviata a partire da un breve componimento, in prosa o versi, firmato dal poeta.
L’argomento che inaugura questa rubrica è una riflessione sul tentativo di esportazione della democrazia attuato dai paesi occidentali ai danni di quelli orientali, con un focus sulla situazione afgana.
Ho avuto il piacere di intervistare in merito Luca Isoardo, poeta cuneese impiegato presso la territoriale di Confindustria e nella vita privata dedito volontariato. Nella sua presentazione mi parla di più delle relazioni umane che ha curato, sostenendo che queste siano la chiave di tutto il percorso formativo umano, a prescindere ogni tipo di premi ed onoreficenze.
Il titolo dell’opera di Luca è fortemente emblematico e, come dice lui stesso, si fonda proprio sulla contraddizione tra i due termini: forza e pace.
FORZA DI PACE
Alla ginestra ho affidato
d’inerpicarsi a est.
A lei una fioritura d’attesa…Dimmi… c’è scintilla oltre l’apatia?
Quanto raccapricciante sarà
la turgida, quotidiana, violenza?Non che a ovest regni sublime l’armonia…
Aulico il linguaggio di chi,
di libertà, prosciuga la fonte…Alle pendici dell’ingiustizia,
nella più classica distorsione,
sbocceranno finti santi
e fragili costruttrici di pace.
«Ciao Luca, il tema che hai scelto è molto complesso e particolare, come mai hai deciso di trattarlo all’interno di un tuo componimento?»
«Ciao Valeria, innanzitutto credo sia importante fare due premesse prima di iniziare: in primo luogo credo che le poesie non vadano spiegate, in quanto trovano loro realizzazione e finalità proprio nella lettura e nell’interpretazione del testo da parte del lettore; in secondo luogo, io ho rispetto della divisa e di coloro che dedicano la propria vita al servizio dello Stato e dell’esercito, ma non ne condivido i valori fondanti.
In ogni caso: la mia attenzione verso questa tematica, non solo quella afgana, ma in generale quella delle armi, è sempre stata molto attiva.
Avendo vissuto da giovane la Guerra del Golfo (1990-1991) e le sue conseguenze sull’esercito e la politica italiana (basta ricordare che la prima missione italiana estera dopo la seconda guerra mondiale è stata lì proprio lì -in Iraq, Kuwait, Israele), avevo già maturato una forte critica nei confronti dell’utilizzo delle armi. Al tempo il servizio militare era obbligatorio, ma io opposi obiezione di coscienza ed esplicitai in una lettera le mie motivazioni e ne fui esentato. Inoltre, l’aver letto Inshallah di Oriana Fallaci, un libro molto corposo di circa settecento pagine, mi ha aperto un mondo ancora limitato al tempo e ampliò notevolmente le mie vedute in merito alla questione.
La mia opposizione non si muove nei confronti del soldato che combatte per un princìpio nazionalistico e per un ideale di difesa dei diritti dei cittadini, ma contro la più generale
necessità di ricorrere alla guerra, in quanto il rivolto finale di quest’ultima potrà essere deciso soltanto dalle politiche internazionali.
Forza di pace vuole essere provocatorio e autocritico, nei confronti non solo degli USA nella questione afgana, ma anche a riguardo dell’atteggiamento adottato dai paesi europei durante poi anche la guerra di Bosnia ed Ezegovina e nel rapporto con i Paesi Baltici, in quanto si sono limitati ad essere spettatori passivi di tutto ciò che stava accadendo.
Nel testo si trova la descrizione della pura violenza del mondo orientale, la quale non deve essere sottintesa come una tradizione incompresa, ma come una vera e propria mancanza dei diritti.»
«Vorrei iniziare questo nostra conversazione partendo da una citazione di Tacito:“I romani fanno il deserto e lo chiamano pace”.
Cosa ti trasmette questa affermazione? Trovi che possa essere un’espressione vicina a ciò che succede in questi tentativi di “esportazione” della democrazia?»
«In realtà la trovo parzialmente adatta al contesto, in quanto i romani al momento della conquista si insediavano sì nel territorio anche sotto l’aspetto culturale, ma cercavano laddove possibile di mantenere alcune caratteristiche proprie dei popoli colonizzati, come la religione.
L’atteggiamento occidentale vi si rispecchia dunque solo in parte, dato che un conto è insediarsi, un altro è agire attivamente mirando ad attaccare i terroristi.
Spesso l’impero romano è stato associato al tentativo USA di esportare la democrazia, dimenticando quasi che il caso USA è stato mosso dal puro interesse di combattere il comunismo: la democrazia sul territorio aveva infatti il compito di controllarlo e orientarlo contro il comunismo (o più in generale contro l’Unione Sovietica).
Non nego però di trovare delle similitudini con l’espressione del deserto utilizzata da Tacito: si è infatti sempre disposti a fare il deserto fisico e morale quando in mezzo troviamo ragioni economiche; nel caso delle aree geografiche invece, in deserto viene scavato attraverso un processo di decostruzione dell’economia, le armi non c’entrano, viene coinvolta la corruzione, la manovrazione del denaro, ed è sempre più evidente con la crescente espansione cinese lungo l’Oceano e i recenti accordi presi da parte degli USA.
Di questo deserto però, siamo tutti colpevoli: al tempo i romani, oggi la Cina, un secolo fa l’Inghilterra e la Francia. Sembra una sorta di gioco della patata bollente che distrugge popolazioni e culture.
«Questa visione dell’Occidente come una sorta di “primo mondo” ha una forte connotazione etnocentrica, seppur con la globalizzazione e lo sviluppo delle scienze sociali si sia provando ad arginare questo fenomeno. Secondo te dove è fissata la linea di confine tra soccorso e sopraffazione?»
Il confine è dettato sempre dagli interessi politici ed economici che ci sono dietro.
La creazione di Emergency (fondata nel 1994 da Gino Strada, medico e filantropo scomparso lo scorso 13 agosto), e prima di essa anche la Croce Rossa, rappresenta un’evoluzione sociale dei diritti dell’uomo dove le conoscenze mediche e psicologiche sono state messe a disposizione del sociale e dei feriti di guerra. Trovo che entrambe le realtà siano uno dei pochi esempi di “corretta” esportazione dei diritti duramente conquistati nell’Occidente.
Inoltre credo che l’idea della nostra egemonia sul resto del mondo trovi le proprie radici all’interno della cultura greca, nel corso dei secoli idealizzata in Europa e istituita a modello assoluto di valori etici e letterari.
In caso contrario, il confine degli interessi personali viene superato e il tutto sfocia nell’appropriazione di conquista. Succede ogni giorno davanti ai nostri occhi: il recente patto tra Australia e USA per fermare l’avanzamento economico della Cina sull’Oceano Pacifico, vedere come questa reagisce ai tentativi di Taiwan e Hong Kong di identificarsi come paesi a parte, con un proprio esercito e una propria identità culturale.
C’è anche la classica (nel senso di ripetuta) distorsione di coloro che si immolano per una causa, che può essere morire in un attentato o mentre si difendono diritti e valori morali in cui si crede fermamente, e la storia ci insegna che coloro che ne pagano il prezzo più alto sono sempre le donne. In ogni regime, in ogni sovversione politica, le prime violenze vengono perpetuate ai danni delle donne: la loro identità annullata per divenire un attributo dell’identità maschile, della sua affermazione. Le violenze di genere nei momenti di guerra sfiorano ogni apice, come emerge anche dalle recenti notizie sul regime dei talebani che va diffondendosi sempre di più in Afganistan: si è partito dal censimento delle nubili, dalle limitazioni lavorative, e di recente si è giunto al divieto di frequentazione dell’università. Tutto ciò, chiaramente, in maniera velata e non espressamente dichiarata.
L’identità maschile viene costruita anche intorno alla figura del pene: l’espressione “ce l’ho durissimo” è spesso utilizzata anche in contesti politici per costruire la propria virilità e il proprio potere, del “io mi affermo attraverso il possedimento di un’altra persona e del controllo che esercito su di essa e sulla sui vita”.
Inutile dire che spesso, le vittime di questa storia sono anche e proprio gli uomini.»
«Qual è stata secondo te la più grande violazione dei diritti umani perpetuata da parte dell’Occidente?»
La più evidente violazione dei diritti umani, a parer mio, è stata sicuramente la prigionia ingiusta di presunti terroristi in nome di una difesa del paese o un tentativo di limitazione al fenomeno, quando in realtà spesso si sfociava nella violenza, nel razzismo e nella xenofobia, alimentando pregiudizi anche e soprattutto nei confronti di comunità che, con i terroristi, non c’entrano proprio nulla.
La violazione avviene anche nel caso non si interviene per fermarla, come l’Europa è stata impassibile spettatore apatico durante la crisi jugoslava degli anni novanta. Io non ero pro all’intervento bellico, al tempo era anche caduto il governo quindi assolutamente non eravamo neanche nelle condizioni, però vorrei che tutti imparassero a riconoscere le proprie colpe, così come i propri meriti.
Come detto all’inizio, il titolo è Forza di pace, perché forza si contrappone a pace, in ogni caso.