Casa
Casa. Ho cercato la definizione sul dizionario ma era troppo lunga e vaga nonostante le parole così specifiche. Era una casa di cemento o un’istituzione, ma non c’era casa mia, casa tua in quel groviglio di parole ufficiali. A me la parola casa fa pensare all’odore del pane. Forse perché dove c’è casa c’è anche un panettiere nei dintorni, quello di fiducia che fa il pane buono che accompagna i sapori di tutti i giorni.
Casa è piena di sapori ripetitivi, arcaici, essenziali e necessari al sostentamento dell’anima. Il caffè, il fischio della caffettiera che annuncia l’oro liquido che la riempie fino ai bordi, l’olio, la marmellata con la frutta a pezzi, le fette biscottate che si sgretolano in pezzi disuguali che puntualmente cadono nel latte. L’odore di qualcosa di buono che cuoce in forno, non importa cosa sia, ma è sempre buona, curata, lievita con la pazienza delle mani sapienti che hanno lavorato e hanno saputo aspettare.
A me la parola casa fa pensare all’odore del pane.
Avete mai notato che ogni casa ha un odore specifico e quelli che ci vivono se lo portano addosso senza saperlo? Solo quando passiamo una giornata fuori e poi rientriamo siamo in grado di percepire di nuovo quell’odore. È solo un attimo, quel momento che spendiamo sulla soglia prima di mischiarci agli odori della cucina, all’aria della sera, al profumo d’ammorbidente delle lenzuola leggermente ruvide quando ci corichiamo.
A casa puoi guarire perché ti dai il diritto di stare male, di restare a letto a leccarti le ferite, di startene in pigiama per un po’ senza che il mondo sappia. Lasciando che gli altri corrano senza di te. A casa si riesce a camminare al buio, in punta di piedi. Si conoscono gli angoli, le fessure, le crepe, ogni scanalatura diventa testimone del vissuto della famiglia.
Qui è dove sono caduta, qui è dove ho pianto appoggiata al muro, con il telefono in mano, da sola. Qui è dove ho scoperto che ho passato l’esame, qui è dove mi sono rintanata in un giorno qualunque in cui non ero pronta per uscire, per diventare un essere socievole.
Qui è dove ho scritto, ho deciso che dovevo cambiare. Qui invece è dove ho sognato e poi mi sono addormentata, i capelli sulla federa nuova e le braccia coperte solo a metà. Quanti tempi e quanti posti è casa. Quante versioni di me hanno abitato questo luogo e quante altre me ci saranno negli anni. È per questo che mi piacciono i coraggiosi e banalissimi atti di quotidianità. Dimostrano una caparbietà ridicola, quella di voler ricominciare ogni giorno come se nulla fosse. Come se a guarirci e a rimetterci a posto fossero loro: la caffettiera, lo scroscio dell’acqua della doccia, il pane buono di sempre.
E forse è vero. Gli eroi innominati sono piccoli atti di ordinaria bellezza.
Casa.