Tentativo di esaurimento di un’ossessione
Il buio trattiene voci appartenenti a vite che precedono la mia ossessione, al buio i campanelli del corridoio tintinnano con un’eco acuta che si attenua al mio pensare alla distanza ravvicinata che si sporge verso le cose. Il buio è una pozzanghera di liquore dentro la quale le mie paure si dissolvono, si amalgamano, si sostengono.
A lungo, ho alimentato il timore per la macchia di assenza di luce che si addensava davanti alla mia camera. Dal bagno, uscendo dalla doccia, o stringendo il rubinetto, iniziavo a contare i passi che mi separavano dal letto, una piazza e mezza liberamente a disposizione per una bambina di nove anni. La nonna già dormiva, di solito da un’ora, con la testa piegata sul divano, esangue come la corolla di un papavero reciso.
Qualche volta, i miei genitori saranno andati al cinema o a teatro, molto più spesso rientravano all’alba da lavoro, liberi dopo l’ora più buia della notte, l’ora che ha fame di buio, gli tende una trappola per morderne il segreto. Pochi sanno che c’è il nero lucido delle notti senza luna e il nero offuscato di nube di passaggio, c’è il nero striato di stella millenaria, e il nero assoluto, privo di antitesi. Ho conosciuto una frequenza irregolare di negazioni tenute insieme dalla stessa parola.
Prima di immergermi in un sonno obnubilante, il buio era ovunque, mite presenza che non osavo annullare. Appena mettevo un piede fuori dalla doccia, il buio c’era. Inseparabile compagno del freddo e del silenzio, sgusciava attraverso lo spazio vuoto del bagno – una conca che sfiatava i respiri delle creature che si rifugiavano lì, al riparo dalla luce, e dai moti della vita. Irregolare, sottomesso alla mia ossessione.
Qualche volta, mia madre rientrava prima. Accendeva le luci in ingresso, si toglieva le ballerine, la nonna era sparita.
La luce elettrica era la prima parola del giorno.