Il sogno di Veronica
Tutto quello che posso dirvi di Veronica è che è piccola e minuta, ha lineamenti delicati e le gambe ad arco e le lentiggini, perchè ha i capelli rossi e gli occhi verde sottobosco che nei documenti per ignoranza e praticità scrivono “marroni” e invece no, sono verde sottobosco che sotto il sole diventano verde bottiglia, ha una voce e un’espressione calma, bassa, profonda ed educata; una voce al guinzaglio. Che è capace di dire in quel suo modo casuale verità terribili. Del resto, come il suo nome suggerisce, lei alla verità ci tiene. Veronica anche una polistrumentista e ha imparato tutto da sè, mettendo a frutto un tempo regalatole da bambina e adolescente quando in estate la spedivano sulle colline senesi dai nonni per tre mesi, lei, figlia unica e unica nipote. Per evitare di dover sopportare ogni giorno le loro domande di naftalina, dava aria alla mente imparando accordi alla chitarra acustica, che era sua, o al vecchio piano scordato che la mamma da giovane aveva lasciato lì. E quindi il suo hobby, ma più che altro la via di fuga principale, era la musica. Da quelle lunghe abitudini estive le era rimasta l’attrazione per la musica e l’odio per gli interrogatori. Le riusciva davvero insopportabile anche solo sentire il sonoro di una raffica di domande a cura di qualche anziana voce umana, o anche solo più adulta di lei. Per questo anche a scuola aveva sempre vissuto le interrogazioni come un incubo, preferiva mille volte i compiti scritti, non perchè non fosse preparata; semplicemente detestava rispondere alle domande, specie quelle senza senso, dei suoi nonni, dei genitori e dei prof. A volte le saliva dentro una rabbia che per far smettere quella tortura, che lei viveva proprio come un’aggressione fisica, avrebbe fatto un macello. Lei che era un’accanita fumatrice, sin dai tempi del liceo, credeva che il fumo le favorisse la concentrazione nello studio, nei suoi momenti di rabbia avrebbe volentieri usato l’accendino per dare fuoco a quelle bocche moleste, e non dover sentire altro che le loro urla di disperazione, non la fila di banalità o di curiosità morbose sulla sua esistenza. Veronica. Vera, chiara, rossa, sonora, antica, implacabile e ottusa. Come una fiamma ardente.
Aveva esagerato con il vino, Veronica. Il vino dei contadini che sua madre aveva riportato indietro dalla campagna. Poi se ne era andata a giocare a burraco con le altre streghe e l’aveva lasciata ai suoi testi universitari nella sua nuvola di fumo e caffè. Che non era riuscito a tenerla sveglia, dopo aver assaggiato quei due bicchieri di rosso. Si addormenta, seduta, la testa sui libri, il mozzicone spento in mano. Dorme, Veronica, e sogna una specie di viaggio astrale.
Si aspettava di non sentire più niente, la figuretta che si muove nervosa, nel sogno. O forse di sentire una musica, una risata, rivedere magari qualcuno che le aveva dato conforto in un tempo lontano, una guida come Virgilio per Dante, perchè se davvero esiste il mondo parallelo che il poeta aveva descritto, il suo posto era certo l’inferno. Non si considera una vera peccatrice, ma ha sempre avuto una curiosità impertinente e una libertà e autonomia di pensiero tali che, sicuro, in un posto angelicato come il paradiso o mediocre come il purgatorio non otterrebbe mai cittadinanza. Il suo posto era tra le fiamme, come testimoniato dai riccioli ardenti. Sente forte la voglia di abbandonarsi finalmente a un’incoscienza continua e innocua; non l’illusoria morte temporanea delle droghe e dell’alcol, con la sua tirannìa di dipendenza. Un’incoscienza continua e innocua che la aiuti a non pensare, a non essere, non desiderare. Per cui, non soffrire. E invece, con grande delusione, continua a sentire dolore, fisico e psicologico, angoscia, bisogni, desideri. Riesce a mettersi faticosamente in piedi; è completamente nuda. Eppure ricordava di indossare la sua amata ecopelliccia blu, quella che in contrasto col rosso acceso dei capelli la fa assomigliare a un personaggio manga tipo semidivinità, un po’ umani, un po’ stregoni. ma lei non è una divinità. Prova sentimenti e sensazioni molto umani e piuttosto meschini: freddo, fame, paura, solitudine. Istintivamente si guarda le mani, per controllare che siano a posto, integre, affusolate e mobili da pianista. Lei suona da sempre, e sente che sarà chiamata ancora a farlo. La musica è un linguaggio caldo e consolatorio, per chi esegue e per chi ascolta. In questo modo non verrà assalita da rimpianti, pentimenti e mancanze. La avvolge una nebbia piuttosto fitta, crede di trovarsi nel momento in cui la notte si trasforma in alba. Per evitare inutili esperimenti non si avventura per curve secondarie e decide di camminare dritto davanti a sè, senza guardarsi nè attorno nè indietro; ha la sensazione di essere sulla strada giusta. Finalmente. Ad ogni passo si aspetta sempre di venire avvolta dalle fiamme o di vedersi davanti qualche dèmone o creatura terribile.
Sente freddo e il fuoco le appare una necessità, crede che anche il terreno su cui poggia i passi sia fatto di nebbia. Lo raggiungerà mai, Veronica, il suo obiettivo infernale? Se lo sta ancora domandando quando vede una luce in lontananza; un giallo citrino acceso farsi strada nella coltre grigioazzurra, crea una strana alchimia di colori. Affretta il passo inconsapevole, augurandosi un posto caldo. Riesce a scorgere una scritta: “Locanda alla fine del mondo”…. “locanda”, che bello, un nome che sa di morbido, di cibo, di calore. Ha talmente tanta voglia di arrivare che solo davanti alla porta chiusa si ricorda di essere nuda. Dall’interno arrivano note di un piano scordato, e voci allegre che cantano sguaiatamente. Ha un desiderio tremendo di raggiungerle ma si vergogna.
Un delicato e improvviso tepore sulle spalle e sui fianchi la sorprende piacevolmente. Qualcuno le ha messo sulle spalle la sua antica pelliccia. La infila in fretta senza nemmeno indagare sull’origine di quel miracolo; tanto ormai è tutta una situazione folle. Entra. Una piccola ragazza lunare dai riccioli rossi arsi di salsedine e un pellicciotto blu fino alle ginocchia piene di graffi, scalza. Si siede fulminea e timida ad un tavolino libero accanto al camino acceso. Un pianista poco distante strimpella pezzi anni ’20. L’arredamento in legno da rifugio di montagna le ricorda i luoghi dove era cresciuta. Veronica si sente a casa, inspiegabilmente serena. Un cameriere si avvicina a prendere l’ordinazione; lei ha una fame da lupo e chiede del piatto del giorno. Lo vede andare e tornare dopo pochi minuti con un vassoio stracarico. Dopo averle sistemato i piatti sul tavolo, si china a sussurrarle tra i riccioli: “Sin da quando sei nata è in atto una cospirazione il cui unico scopo è la tua felicità”… e la chiama per nome. Sconvolta alza lo sguardo verso di lui e incontra uno sguardo perfettamente blu e morbido come la sua pelliccia. Le viene in mente un pensiero bizzarro “un angelo è come una perla di una lunga collana”. Ha il sospetto che sia un messaggio telepatico del cameriere, quel pensiero. Che si allontana sorridendo per lasciarla mangiare e torna molto dopo quando, per digerire tutta quella roba, lei si vede costretta ad ordinargli un “canarino”. “Ecco, Veronica, tesoro”, la voce di lui. E poi: “Veronica, Veroooo… ma quanto hai bevuto, Madonnina… e a stomaco vuoto, scommetto!” La mamma è tornata.