I confini della pietas
La pietas ha una sua logistica? Risente dei luoghi, delle distanze, delle condizioni sociali, delle forme religiose, delle economie? Domande francamente un poco curiose, e forse senza senso. La pietas non è la pietà, non è un sentimento misericordioso, ma il rispetto e la cura per gli altri, per gli dei, per la famiglia, per i più deboli. Che poi non è altro che il legame con il divino, con la cerchia familiare, e con l’umanità che ci circonda. E i romani l’avevano anche deificato questo sentimento, e pure dedicandogli dei templi. Una dea rappresentata da una cicogna o da un bambino, presente perfino sulle monete.
Va bene, ma cosa c’entra la logistica, i luoghi o la distanza? Qualcosa sembra entrarci, perché sembra esistere una proporzionalità diretta tra l’intensità della pietas e la distanza dell’oggetto della medesima. Assistiamo proprio in questi giorni a quanto avviene in un luogo lontano, brullo e montagnoso dove i talebani (strano nome, che vuol dire studenti, per indicare chi legge il mondo con la deformazione dell’integralismo, e professa l’ignoranza per coloro che reggono la metà del cielo, per dirla con il proverbio cinese) stanno costringendo una società a rinchiudersi in se stessa, con metodi di violenza senza confine.
E anche in questo caso, cosa insopportabile, ogni malvagità è giustificata con la volontà di un Dio che peraltro è sempre definito “il misericordioso”. Quando questi fatti avvengono in luoghi distanti ore di volo, il sentimento d’indignazione per i malvagi e di vicinanza con le vittime è grande, con un moto generale di commozione. Ma questa sensibilità umana tende a diradarsi se deve manifestarsi in situazioni di minore chilometraggio, o magari trasformarsi in accoglienza. Riemergono antiche diffidenze, timori ancestrali, luoghi comuni frequentatissimi. E la vittima di malvagità si trasforma, al diminuire dei chilometri, in sospetto malvagio a sua volta.
Nella scrittura geroglifica egiziana, lo straniero e il nemico erano rappresentati con la stessa figura: un uomo inginocchiato con le mani legate dietro la schiena. Un pregiudizio e una paura che vengono da molto lontano e che, quindi, trova forse sostegno nella natura umana, nell’essere quello che siamo.
Ma sulle nostre essenze primordiali dovrebbe fare aggio ciò che noi chiamiamo civiltà, evoluzione, modernità, valori: tutti quei termini che esaltiamo e invochiamo quando il problema è distante e ci permette di essere misericordiosi senza rischi. E il lato bizzarro è di natura culturale. Sentiamo invocare spessissimo la necessità di salvaguardare la nostra integrità, appunto culturale, religiosa, etnica, dimenticando che la nostra straordinarietà etnica, culturale, alimentare, architettonica è frutto di commistioni e diversità, di invasioni e conquiste di mondi non solo diversi ma anche opposti.
Ma il passato non interessa, conta solo il possibile futuro prossimo, molto prossimo e la paura che lo rende incerto e minaccioso.
foto di Ahmed akacha da Pexels