“In between days” tra l’avventura e la paura
Ricordi di percorsi culinari per le strade della capitale, lontani dal terrore sanitario, cullati dal vento.
Un’altra estate di clausura e di precarietà. Ne approfitto come sempre per oziare, studiare, recuperare ricordi e riflessioni. La mia indole siculo-filosofica mi aiuta a non sentirmi troppo in colpa per quest’ozio sapiente che sottraggo ai fornelli e all’aspirapolvere. Del resto studiare e riflettere, oltre che parlare a macchinetta, sono le cose che meglio mi riescono. Come spesso faccio, parto da una vecchia musica o da una vecchia foto per farmi raggiungere dai ricordi, che sono tutti quanti belli, anche quando non lo sono. La mente fa prodigi, quando si tratta di non soffrire. Riunisco un po’ di episodi simpatici in un’unica giornata dalla mattina lavorativa, alla spesa rituale al pomeriggio, al ristorantino nelle dolci serate romane.
Cominciamo dallo scenario scolastico; io sono una maestra “special”, ossia lavoro trasversalmente con varie classi offrendo laboratori di lettura, arte e inglese, le mie specializzazioni, e curando il prestito dei libri in biblioteca. Una vita di parole, anche al lavoro. Ogni tanto qualche collega in cerca di ospitalità mi porta il suo carico di infanzia disagiata o affaticata per una session di recupero scolastico, se hanno necessità di isolarsi per un poco dal resto della classe. Quel giorno senza chiedermi permesso irrompe il nuovo maestro di sostegno, forte della giovinezza e dell’aspetto belloccio. Perché essere giovani e belli e maschi rende l’educazione un optional, evidentemente… ma non mi offendo. Lui non saluta, non lo faccio neanche io. Bon! Con lui c’è un bimbo cingalese appena arrivato, stella. Parla solo inglese, ed è terrorizzato. In più lo hanno consegnato alle grinfie di un lampadato presuntuoso alto come un lampione e vitale come il maggiordomo degli Addams. Rimane affascinato dalla mia bionda Alice, sto dipingendo le quinte teatrali per una recita, ricorre l’anniversario di Carroll. Il maestro ne distoglie prontamente l’attenzione e lo trascina al banco. Stanno ripassando gli articoli determinativi, sento. E lui: “come si dice, ‘passami lo zucchero, traduzione di sucker ? Il bimbo gli sgrana gli occhioni neri in faccia, tra la meraviglia e il disgusto. Io sono a un pelo dal dipingere un baffo d’oro sulla faccia di Alice a cui stavo rifinendo le chiome. Ovviamente, non ha capito… nemmeno perché cavolo si trovi lì. Penso anche io alla mia essenziale inutilità, insieme a migliaia di colleghi sul territorio nazionale. Gli italiani e le lingue sono davvero come l’acqua e l’olio. Ho deciso di prendermi una pausa-caffè e di lasciar abbeverare il bimbo alla fonte della sapienza anche per evitare di aprire bocca a sproposito. Esco alla ricerca di un caffè corretto e mi ricordo di un bar delizioso non troppo lontano da un negozietto di borse artigianali che adoro e non frequento da un po’. Giro per i vicoli conosciuti, senza trovarlo. Eppure vedo il bar. Possibile che mi sia persa anche qui?!? Alla fine con tanto di Google scopro l’orrida realtà. Al posto del negozio di borse hanno messo un negozio di “laminazione ciglia”; mi informo su Google. In pratica te le stirano fino a fartele venire ridicole come quelle di Minnie Mouse . Secondo loro “naturali ma arrapanti”. Poco più giù, sulla strada, un sexy shop. Ho capito come funziona. Prima una si fa “laminare” le ciglia, poi le chiappe. “Ma de che stamo a parla'”, penso, “altro che arte”.
Finisce la mattinata lavorativa. “Che culo, te lavori solo de mattina, tre mesi de vacanza”… mi diceva un rancoroso amico ventennale, ricordo. “Voi statali proprio nun fate un cazzo!” Rispondevo, leggiadra: “Vedi, se in gioventù al posto delle canne e delle risse studiavi trent’anni come ho fatto io, più due master universitari e vacanze studio pagate con le ripetizioni, poi ti facevi tre concorsi, entravi nello stato e arrivavi a fare un cazzo pure tu! E senza avanzamenti di carriera e con uno stipendio sicuro ma ridicolo e con la fama di nullafacente per il resto d’Italia”. Sono soddisfazioni, come si dice.
Decido di portare il figlio in tour di spesa al supermercato, per distoglierlo dal momento inquisitorio nei miei confronti, stimolato fin dalla prima infanzia dalla sua indole simile alla mia e dalle prediche che gli ho impartito: “A ma’, tu ce li avevi i sogni, da ragazza?” “Certo , tantissimi. Tre erano quelli principali”…”E quali erano?” “Dunque, te li dico in ordine di realizzazione; ho sempre voluto sin da piccola trovare un lavoro solo mio, avere un grande amore e figli”. “E quindi, come è andata?” “Diciamo che tu sei il sogno riuscito meglio…” “Ammazza, pensa te il resto, allora!” “andiamo va, a fare un po’ di spesa, è ora”… Mi porto il mio sacco di patate molesto al supermarket e iniziamo in coordinamento perfetto a riempire il carrello di dolciumi e schifezze precotte. Non sono esattamente uno chef stellato. Ci mettiamo in fila alla cassa e sento la sua voce di rana in progress che mi chiede: “A ma’, ce sta uno che te fissa da mezz’ora, che vole?” La dolcezza dell’eloquio adolescenziale mi commuove sempre un po’. Alzo distrattamente lo sguardo dalla conta dei surgelati in direzione dell’intruso. Lo riconosco, sorrido. “Ma ciao!!!” E’ un vecchio amico degli anni universitari, tornato da poco a vivere in zona, dopo un tentativo di convivenza andato a male. Iniziamo a parlare dei compagni, dei parenti, dei prof, dei miei genitori che lui ha conosciuto bene; lo abbraccio inzuppandogli la barba di lacrime. Mi rendo conto di aver esagerato e mi distolgo prontamente. Mio figlio ci osserva sospettoso e insofferente a ricordi che non lo riguardano. “E tu come stai, carissima? E il bambino?” “Il bambino è a casa, lui è il badante”… Mio figlio mi lancia un’occhiataccia; che mamma-pagliaccio incorreggibile si ritrova. Osservo l’interlocutore arrossire sotto gli occhialini tondi, prima di capire la battuta e salvarsi in corner con una risatina nervosa. “Ahah, vero, è cresciuto, che bel ragazzone!”. In effetti lo ricorderà nel passeggino, povero. Non ha tutti i torti. Ci abbracciamo di nuovo, in atmosfera di amarcord, ognuno coi suoi fantasmi sulla spalla. Mi sento in dovere di fornire spiegazioni al “ragazzone”, dopo averlo salutato. “Lui era Riccardino, andavamo all’università insieme, mi ci accompagnava in macchina, è più grande di me”… “E ancora lo chiami col diminuitivo???”
La sera io e il padre lo portiamo in centro, nei nostri luoghi della meglio gioventù. Ristorantino tipico, Marito e figlio attaccati al wi-fi, io a fare gara di cultura musicale col cameriere musicofilo. Sulla discografia dei “The Cure” lo batto, anche se ha seguito ben sedici concerti dei “Subsonica”. Sconfitta su tutta la linea, lì. Usciamo mezzi sbronzi; aspiro suoni, colori, odori come un gatto. Ho anche voglia di fare pipì. e sento greve tutto il peso degli anni. A un certo punto vedo un tizio con gli occhi spiritati e un aspetto vagamente familiare che ci viene incontro gridando il nome di mio marito a gran voce. Già sento di detestarlo. Faccio mente locale, ma sì, è un suo ex collega, ora ricordo. “Anvedi aho’, quanto tempo… Lei chi è, la regazza tua, l’americana?” E gli fà l’occhiolino… chissà a che punto della lista ero, allora. Mi verrebbe una battuta: “Eh no, te stai a confonde, io so’ la francese!” Ma ci rinuncio. “Complimenti, signora, è sempre uguale!”. Ora siamo passati al tono da gentleman. Eh, sono la sua “signora”, adesso. Anche ora vorrei rispondergli: ” E qui, carissimo, non sa quanto si sbaglia!”. Invece preferisco assumere una posa da sfinge, socchiudendo gli occhi, pure in questo caso istruita dai gatti. Quando decidono di lasciare noi misera umanità alle nostre recite patetiche e inconcludenti. La notte ci sorride, benevola, accarezzandoci col vento caldo dell’estate.