Punto e Virgola – Behind the dates
“Mi devo preoccupare?”, invia. Mezzanotte e venti. Cosa fai sveglia a quest’ora, non dovresti andare a scuola domani mattina?!
Stavo giusto andando a dormire, domani sarà una giornata full al lavoro, ma qualcosa in questa timida richiesta suggerisce che non posso non rispondere immediatamente. Rileggo il messaggio ricevuto, sperando di capirci qualcosa in più: “Sarà inutile, ma te lo chiedo…quanta fretta hai domani?”. Mi stai chiedendo del tempo…o no? Vuoi parlare? Sarebbe strano, ma chissà. È come se, anticipandomi la richiesta ora, cercasse di vincolarsi a un appuntamento, per costringersi a dire qualcosa che spaventa, ma preme per uscire. Dopo anni, penso – spero – di poter interpretare le poche parole in un suo messaggio Whatsapp, nonostante sia sempre più introversa, probabilmente smarrita sulla soglia dell’età adulta… ormai poco ha della bambina entusiasta e spensierata di anni fa.
Non l’ho ancora aggiornata sul programma per domani pomeriggio con i ragazzi più giovani: sarà impegnativo, finiremo in ritardo probabilmente. Andrei volentieri a casa subito dopo.
“Ho tempo J”, invia.
*
“Un minuto e ci sono”, invia. Mi aspetta nella stanza accanto da un po’, meglio avvisare che non mi sono dimenticata, ma i ragazzi richiedono tempo. Il loro vociare in fondo al corridoio si affievolisce man mano che escono, l’eco della loro energia permane. Non resta nessuno, finalmente.
“Scusa il ritardo… stai dormendo?”; “Più o meno, tranquilla non avevo fretta”.
È ripiegata su se stessa sulla panca, appoggiata al tavolo, coperta dalla sciarpa enorme a mo’ di mantello, con quel cappello ridicolo ma tenero, che porta da quando era lei fra i ragazzi urlanti.
“Hai freddo?”; “No, sono solo stanca”.
Non mi guarda, non lo fa mai, sembra distrutta, come non dormisse da giorni. Uno sguardo incantato, confuso. La voce flebile.
“Ti hanno stancato così i ragazzi? Non te li aspettavi così impegnativi?”; “No no, sono io…”.
“Come ti è sembrato il pomeriggio?”; “Bene”.
Qualsiasi cosa io chieda il suo tono di voce non varia, la lunghezza delle risposte non supera le poche sillabe. Ogni segnale – verbale e non – comunica respingimento. Ma insomma, mi hai cercato tu o cosa?! Vado al dunque.
“Allora, cosa volevi dirmi?”; “Eh…no niente”.
Domanda troppo diretta. Ma mi hai chiesto tu di parlare, non puoi aver cambiato idea.
“No, c’è qualcosa…devo indovinare?”. Silenzio. Faccio fatica a interpretarlo. Alza la testa, la sua espressione varia indefinitamente, prende fiato…sospira, riappoggia la testa. Sento la fatica immensa solo per il fatto di essere qui. Riprovo.
“Sai che non posso leggere nel pensiero. Per quanto posso impegnarmi a cercare di capirti, ho bisogno di alcune parole. È successo qualcosa a qualcuno?”; “No, no”.
“Hai fatto qualcosa di male?”; “No, cioè… sì”.
“È qualcosa di grave?”; “…beh…grave…brutto…per me sì”.
“È qualcosa di penalmente perseguibile?”. Sorride. “No! no! Figurati!”.
Mi avvicino. Sedendomi accanto, le poggio la mano sulla spalla, si irrigidisce. “Sai che puoi dire qualsiasi cosa, non sarò io a giudicare, né a sorprendermi: ne ho viste di cose brutte”.
Evita il mio sguardo, ma posso percepire il flusso di pensieri che non riescono a prendere forma in parole. Lascio trascorrere del tempo, non saprei quanto. Poi ritento.
“A cosa stai pensando?”
Silenzio.
“A cosa sto pensando?! Dai, non puoi non vederle anche tu. Una serie di date, marchiate nella mia testa, che non riesce a non imprimerle. Minuscoli dettagli, nascosti ai più – spero -ma per me lampanti, monumentali, dietro a quelle date.
Vedo scorrere quei momenti davanti. Mi vedo viverli con quell’odio con cui si seguono le scene dei film in cui da spettatore sono evidenti le conseguenze deleterie che avranno le azioni del protagonista, ma lui ovviamente ne è ignaro. E davanti allo schermo è chiaro che lui sta prendendo proprio la direzione sbagliata, ma per quanto gli si urli, non lo si può fermare. E lui si farà del male.
30 Agosto 2016: un anno e mezzo fa ormai, ma il ricordo è ben vivido, tempestato di dettagli insulsi e pungenti. Non posso cambiare ciò che già quella sera era iniziato.
30 Agosto: tre giorni dalla mia partenza per 6 mesi dall’altra parte del mondo. Il mio pomeriggio con l’apprensività di mia madre, a completare le ultime commissioni pre-partenza. Niente di essenziale: qualche ora di shopping per le cose che “non si sa mai ti possano servire”. O meglio, nel nostro impacciato orgoglio di non voler esprimere le emozioni, una scusa come un’altra per passare qualche ora normale insieme, prima delle giornate dedicate a salutare tutti. Fatto sta che alle sette di sera ero ancora con lei a due ore da casa, quando mi è arrivato il tuo messaggio: imprevisto, non ci possiamo salutare se non stasera.
Quello che è successo dopo, quando l’abbiamo vissuta dall’interno, più o meno lo sai anche tu. Ma vorrei poterti raccontare quegli aspetti insignificanti, sempre rimasti nascosti spero, ora inoccultabili ai miei occhi come netti segnali di allarme. Vorrei confessare la paura che mi fa notare il filo trasparente che li collega.
Come sai, credevo di non riuscire ad arrivare: per la mia testa era già difficile riorganizzare dei piani prestabiliti. Ti eri resa conto che, tra le varie cose, avrei dovuto cenare di fretta? La corsa, la solita piazza, l’imbarazzo, l’ansia dei primi saluti, lo stato di trance per non aver ancora metabolizzato che sarei partita. In effetti la tua idea non era fuori luogo quanto è sembrata a me in quel momento: c’era forse una proposta migliore, per alleggerire la tensione, di un gelato? Probabilmente uno degli ultimi gelati in Italia, mi hai fatto notare. Chissà se ne avrei mai trovati di buoni, o se addirittura lo facessero il gelato, a 6380 km dall’Italia.
“No”. Ovvio, era martedì: perché avrei dovuto prendere un gelato di martedì? Non era mica il weekend, né un’occasione speciale. E poi ci sarebbe stata la festa il giorno dopo, con il tiramisù… di mercoledì, che non avrei potuto evitare. Impensabile.
Ti ricordi la mia scusa? “Li sto mangiando con tutti in questi giorni con la scusa dei saluti, passo per stasera”. Beh plausibile, no? Vorrei confessarti ora che non ricordavo nemmeno quale fosse stato l’ultimo, in realtà.
Un ricordo prezioso, sporcato da un primo segno indelebile. E lo sai che pochi minuti dopo, si è ripresentata la stessa scena con un altro amico, e ho riproposto la stessa scusa? Ah, con lui si sarebbe trattato di un frozen yogurt, se facesse qualche differenza.
Non posso fare un rewind ed accettare il gelato che mi avevi offerto. Per quanto so che sia stupido, non posso smettere di associare quella sera al non-gelato e al non-frozen yogurt. È frustrante. E paradossalmente il gelato non sarei capace di accettarlo nemmeno ora: è questo che ti sto urlando, non lo senti?! Sogno di farlo, prima o poi.
2/2/2017, 366 giorni fa. È già passato un anno dal rientro. Le mie amiche a casa mia, quelle storiche dei tempi dell’asilo. Le stesse che mi avevano anche organizzato la festa a sorpresa di cui ti ho accennato…quella festa in cui mi hanno costretto a mangiare una fetta di una pizza – quanto mi sono arrabbiata con loro! – , quella festa in cui temevo i giochi in cui mi facevano bere, beatamente ignare di quanti zuccheri contenessero quegli alcolici. Quelle amiche che in quest’anno ho praticamente perso, dopo 15 anni di rapporto mantenuto, a forza di rifiutare di uscire a cena, ma cavolo propongono sempre la pizzeria!
Dicevo: di quel momento con le amiche a casa mia io non posso che ricordare la sensazione di avere addosso il loro sguardo ispettore, pronto ad incrociare quello di mia madre, il commento buttato là, forse per riempire il mio silenzio, innocuo, ma tagliente: “quanto sei dimagrita!”; la mia seccatura come sensazione dominante di quella serata: loro non volevano accettare le torte fatte in casa da mia mamma, se non le avessi mangiate anche io. E così le torte sono rimaste lì intoccate, per aggiungere al pacchetto della serata il senso di colpa per la delusione di mia mamma.
Un mese fa esatto: i tre giorni di fila con i ragazzi, in cui ho avuto la fortuna di poter provare a darvi una mano, lontana da casa, respirando un che di normalità. La gioia di esserci stata è macchiata irremovibilmente dallo sforzo estenuante di affrontare i pasti in gruppo, cercando di non far notare nulla. Pasti e porzioni così insopportabili, preparati da cuochi così amorevoli. Il senso di colpa per non averli potuti evitare. La lotta con me stessa per comportarmi normalmente. Ti ricordi le mie pause di riflessione dopo i pasti? Non era solo la stanchezza. E la stanchezza non era solo per le attività delle giornate. Le notti insonni, a ripensare a quei pasti. Sai che potrei ancora elencarti il menù nel dettaglio? Potrei proprio dirtelo ora…ma forse ti spaventeresti? Ovviamente mi troveresti pazza. Evidentemente lo sono.
Penso al ragazzo di oggi pomeriggio che ha portato la torta per la merenda, che ha insistito perché ne prendessi una fetta, orgoglioso della sua creazione, si è offeso perché non l’ho accettata. Vorrei spiegargli tutto. Che non dipende da me. Che se la avessi presa, sarei stata male. Che il senso di colpa mi avrebbe assalito, divorato, e sarei stata costretta a saltare la cena per compensare…ma a cena ci sono i miei genitori e non voglio litigare ancora con loro. Che non ho il controllo delle mie reazioni. Ma è troppo imbarazzante, io non riesco a dirlo a nessuno, glielo diresti tu?
27 gennaio, la settimana scorsa: i miei hanno scoperto anche che non finivo il pranzo. O meglio: so di essermi lasciata scoprire, come ora mi sono incastrata in questo momento difficile per farmi estorcere delle parole.
Penso al gelo in casa di questa settimana, per colpa mia. È da un anno e mezzo almeno che vivo in questo loop di autocostrizione, di momenti di trance, di ricordi che hanno come focus principale il cibo, di liti, di isolamento, di bugie. Non ho il controllo di me. E ho paura. E sono sola. Ho scoperto che esiste un centro non lontano da qui, in cui trattano queste cose. Non ho il coraggio di dirlo ai miei. Non so nemmeno se ho il coraggio di andarci. Ma ne ho bisogno? È tutto così confuso.
Penso a quel semestre all’estero, lacerato dall’insinuarsi di qualcosa di più grande e più forte di me, costellato di occasioni perse, dominato da pensieri e comportamenti fissi. A quel momento cardine, in cui mi hai offerto un aiuto, pur non avendo alba di quale delirio stessi vivendo quel giorno, dall’altra parte del mondo. L’ho ignorato quella volta, ma ora ne ho bisogno, non so più cosa fare. Ma come te lo dico?!”
“A quello che mi hai scritto il 23 ottobre 2016”
“…non ricordo i dettagli di tutti i messaggi che invio…se puoi ripetermelo”
“hai detto che…ma se posso…”
Ancora non colgo dove vuole arrivare, mai che parli chiaramente, ma cerco di decodificare ciò che confida, se è l’unico modo per poter ascoltare.
*
Un’ora e ben poche parole in codice dopo, sono al corrente dell’esistenza di un centro per i disturbi alimentari e dell’idea balenata di contattarlo. La sua espressione è cambiata. C’è molta meno tensione nelle sue spalle, le circondo con il mio braccio da un po’. Tranquilla, non devi farlo da sola. È il momento di tornare alla realtà, se possibile, è ancora più stanca seppur più rilassata, tempo di andare a casa.
“Che dici, è ora di tornare a casa? I tuoi genitori ti avranno dato per dispersa”; “Sì, sarà il caso, anche se non ne ho voglia”.
“Stai meglio?”; “Ho fame”, confessa sorpresa, più a se stessa che a me.
“Immagino, ti sei finalmente rilassata. Poi non hai fatto merenda”
“Vero, non pensavo lo avessi notato…”
E non ho nemmeno pranzato. Ma questo è meglio che non te lo dica. Mi basta godermi questa leggerezza: kg di parole in meno addosso, che pesavano più di quanto apparisse. La sensazione di averne dette quante mai prima. È bello, semplicemente bello, poterle affidare a qualcuno. Fiducia: poca, pochissima in me. Paura: di non farcela, di non sapere cosa succederà, di essere sola. È sorprendentemente bello poter chiedere aiuto.
*
Appena a casa recupero i messaggi di quel 23 ottobre. “A volte può essere coraggioso e utile confrontarsi con qualcuno…e chiedere aiuto, anche se vuoi dimostrare di farcela da sola”. Certo, strano modo per farlo, ma ha affrontato la difficoltà di chiedere aiuto, finalmente. Non ho la più pallida idea di come e cosa, ma farò ciò che mi chiederà. Dovrà chiederlo, però. Ci sarò comunque, senza alcuna differenza rispetto a prima, certa che un periodo difficile e delle scelte sbagliate non marchiano la persona che c’è sotto. Sosterrò la scelta di farsi aiutare da professionisti, fiduciosa nel primo passo verso un miglioramento.
Mezzanotte meno dieci: “Grazie per aver condiviso cose per te così importanti, ti sarò accanto”, invia.