Riuscire ancora a soffrire – Romanzo breve
Sentivo il dolore del mondo sorprendermi nel sonno. Non avevo difese di fronte all’incontenibile marcia dell’inconscio che riappariva di notte e mi scaraventava in vite parallele che non erano certo le mie.
E soffrivo. Soffrivo il dolore di tutti.
Sentivo il dolore del mondo sorprendermi nel sonno
Delle donne, che prima vengono infibulate e a tempo debito sciancate. Che prima vengono chiuse e a tempo debito riaperte con fendenti di disgustoso e pervertito piacere.
E soffrivo il dolore dei bambini nati senza il privilegio di essere umani.
E soffrivo l’apatia del mondo divenuta mostruosa abitudine. O disinvolta attitudine a ignorare.
E soffrivo la mia inutile sofferenza che produceva fatiche disumane che mi stremavano e mi rendevano incontrollatamente vulnerabile.
La notte l’affrontavo così: coi mostri da combattere e senza neanche uno straccio di super potere.
L’empatia mi vestiva da sera stringendomi nel suo asfissiante, scomodo, tubino e mi portava a braccetto per le miserie dell’uomo.
Ché poi, a pensarci bene, da quando il mondo si è impoverito diventando una cloaca per zombie anestetizzati, riuscire a soffrire è forse, paradossalmente, il potere più grande.
La notte l’affrontavo così: coi mostri da combattere
Di questa consapevolezza mi nutrivo per tentare di aggrapparmi a un alibi qualunque, come ad un’àncora per evitare la deriva, come un neonato al dito del padre dopo il taglio del cordone: un nutrimento nuovo, dunque, fatto prima di tutto di fede e coraggio, poi anche di latte e timori, di atti consapevoli. Quando la rassicurante flebo agganciata al ventre è tolta, se si vuole sopravvivere serve altro, serve cacciare tra i seni materni. L’involontarietà della vita tramuta in azioni necessarie, fatta eccezione per cuore e polmoni, che continuano a fare da sé a memoria di una natura divina troppo presto ammainata e riposta negli scantinati del quotidiano.
E notte dopo notte, affrontavo il buio guardandolo in faccia. Al buio. Guardandolo senza vederlo. Ad occhi aperti nel nero più fitto, dove tra vista e cecità non c’è differenza. Come tra indifferenza e sofferenza, che sono l’una il testimone dell’altra.