Furto 26 – Italianibravagente
Mi sono sempre chiesto cosa spinge un lavoratore italiano a trasferirsi in Africa per qualche mese, per un anno, alcuni addirittura ci restano un decennio intero. Cosa li spinge a stare lontano dagli affetti, dalla famiglia, dalle comodità, lontano dagli arancini e dalle granite con la brioscia (anche se questo vale soprattutto per noi isolani).
Ho incrociato muratori bianchi mischiati a muratori neri costruire palazzi all’occidentale, che di occidentale però avevano solo la forma. Ho incrociato anche insegnanti bianchi mischiati ad insegnanti neri dentro scuole italiane in cui si parla inglese e quando capita un po’ di italiano. Insomma, di gente scolorita ce n’è tanta in giro per il continente, mica ci sono solo io.
Italianibravagente, italiani dal cuore d’oro.
Ho provato anche a cambiare strada, anche se la strada era giusta, per fare in modo che il mio passo, casualmente, andasse a sbattere con alcuni di questi italianibravagente. Ma niente. Mi sfuggivano sempre. Troppo impegnati a lavorare, o semplicemente intenti a farsi i cazzi propri. Ho cambiato bersaglio. Ho provato quindi a cambiare strada, anche se la strada era giusta, per fare in modo che il mio passo, casualmente, andasse a sbattere con africani che lavorano con italianibravagente. Ma niente. Anche loro mi sfuggivano sempre.
Poi però ho incontrato Gianni (nome inventato perché di casini, il caro Gianni, ne ha avuti già abbastanza).
Gianni ha lavorato come muratore per qualche mese per una importantissima azienda italiana che costruisce case in giro per il mondo. Anche in Africa, giustappunto.
Lo incontro perché amico di un’amica, e soprattutto perché quando ti trovi all’estero gli italiani sono i primi che incontri, anche non volendo. Con lui non è stato necessario il giochetto del cambiare strada per incrociare passi casualmente e bla bla bla. È da subito cordiale e disponibile, diventiamo amici d’infanzia alla terza birra, birra che di birra però ha solo il colore, perché il sapore è un misto fra l’infuso di cicoria e lo sciroppo per la tosse, di quello che lo devi bere solo con le finestre spalancate in modo che se ti parte l’idrante interno concimi le piante del giardino.
Dunque, adesso, siamo qui, seduti, alla terza birra.
Mi racconta che sono i suoi ultimi giorni di lavoro. La paga è ottima, triplicata rispetto all’Italia, fra l’altro per soli quindici giorni di lavoro. Non riesco a coglierne la logica. Sarà la birra. Mi racconta poi che la paga italiana è all’italiana. Non capisco. Mi dice che la paga italiana è calcolata all’italiana per gli italiani. Continuo a non capire. Ordino altre due birre. Mi spiega che gli italianibravagente che dall’Italia gestiscono i cantieri hanno differenziato le paghe. E fin qui niente di strano. Anche in Italia un manovale prende meno di un muratore, un muratore prende meno di un capocantiere, un capocantiere prende meno di un capo progetto, e via dicendo. Il problema però, mi spiega Gianni, non sta nel tipo di lavoro, ma nel tipo di pelle. C’è la paga da bianco, e la paga da negro. E bevendo la quarta birra mi spiega che il termine negro non è improprio, non è razzista, ma è tanto amaro quanto questa schifezza che stiamo bevendo. Gli italianibravagente pagano una quota triplicata agli italianibravagente in Africa, comprensiva del lavoro e della trasferta. Mentre ai negri, che svolgono il medesimo lavoro degli italianibravagente, con l’unica differenza che lo fanno per il mese intero, pagano la metà di quanto si prenderebbe in Italia. Bevo una sorsata di birra. Non ne sento più il saporedimmerda. Gianni sorride e mi chiede di brindare ai suoi ultimi giorni di lavoro. Obbedisco, brindiamo, ordiniamo la quinta. Abbiamo perso qualsiasi filtro e fra poco ci ritroveremo a cantare Sono un italiano, un italiano vero e a continuare con Su di noi nemmeno una nuvola. Mi racconta di avere scoperto altri particolari. Lo stipendio dimezzato ai negri viene ulteriormente ridotto. Gli italianibravagente hanno sottoscritto un accordo con i negricapideinegri e ne trattengono una quota dello stipendio.
Altro che italiani dal cuore d’oro.
Gianni, ormai in balìa delle birre, inizia a ridere come un matto. La coscienza, quella maledetta coscienza che l’ha spinto a rassegnare le dimissioni, era meglio che si faceva i strafattacci suoi, mi dice. In fondo la paga è buona. In un anno avrebbe guadagnato il corrispettivo del lavoro di tre anni. Le regole non le detta lui. Ride ancora Gianni. Dice che la moglie non si capacita della scelta che ha fatto. Lo accusa di voler fare il paladino dell’etica correttezza quando ognuno pensa al suo e tutti si fanno i soldi. Dice che anche i suoi compagni di cantiere l’han preso per scemo. I negri no, non capiscono la lingua e pensano a lavorare.
Gianni smette di bere, smette di ridere. Il suo volto si fa cupo, digrigna i denti, assottiglia gli occhi.
Sa che quanto ha fatto non cambierà un cazzo. Sa che di italianibravagente disposti a tacere ne troveranno a mazzette. Sa che i negri non si ribelleranno, perché le cose, per loro, è così che vanno. Sa anche però che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Quello onesto. Quello che ti fa alzare ogni santa mattina con la schiena a pezzi, quando è ancora buio, con la caffettiera che non ne vuole sapere di venire, il calzino messo al contrario, le mani che bruciano per la fatica di trascinare cardarelle di cemento, tua moglie che si sveglia e in vestaglia ti viene a salutare davanti alla porta, i tuoi figli che ti vedranno la sera tardi e ti chiederanno di giocare alla Play, i tuoi compagni che si lamenteranno della paga bassa, degli orari fottuti, della vita che va avanti. Gianni lo sa. Gianni lo sa e ordina altre due birre dimmerda. È a questo che vuole brindare.
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