Uno, nessuna e centomila….. donne
Sveglia alle 6 del mattino, si inizia! “Figli in piedi… forza!”, corri o fanno tardi a scuola! Cazzo c’è traffico! Veloce, vai in ufficio: “Signora ha cinque minuti di ritardo, cerchi di non farlo più!”. Ore 4 del pomeriggio, prendi i bambini da scuola, spesa strategica di cibo, vola a casa, pulisci, lava, stira: “Bambini, i compiti?”. Prepara la cena. Ore 9 di sera, “Tesoro ma cosa hai cucinato?”, “Cotolette e insalata”, “Tesoro ma sono a dieta!”, “Eri da ben tre ore sul divano, caro, potevi fare qualcosa tu!”, “Ma sono stanco, lavoro tutto il giorno!”, “Eh, io invece mi giro i pollici!”. Ore 10:30 di sera, piatti, cucina, divano… SDANG: crollata. “Tesoro ma dormi sempre, la nostra vita sessuale è nulla!”.
Villa Favorita, Ercolano, quattro bellissime donne della compagnia Vesuvioteatro, hanno inscenato “Uno, nessuna e centomila“, opera caratterizzata da quattro toccanti monologhi incentrati proprio sul mondo femminile, sul maschilismo, sulle violenze che in troppe viviamo.
La rappresentazione si apre con una dolce e sensibile Arianna (alias Francesca Morgante), che da statua si anima, per raccontarci la sua rivolta contro le intimidazioni paterne. Non obbedirà agli ordini, vuole scegliere per se stessa e per questo è disposta a tutto, anche a essere una fredda e morta statua di pietra.
Arianna cede poi il posto a Simone (Isabella Trodini) e alla sua crescita. Già da bambina gli viene assegnato un ruolo sociale, gli viene imposta una differenza con il fratellino perchè lei è una femminuccia. Simone cresce, diventa una ventenne alle prese con le prime esperienze sessuali, non soddisfatta dall’incuranza dei suoi partner, si sente sola, usata. Simone raggiunge i trent’anni. È imbrigliata in un ruolo di conquistatrice che in realtà non vuole. Perchè dobbiamo subire torture fisiche per rientrare in schemi di bellezza mediatica? Per quale motivo dobbiamo per forza essere affiancate da un uomo? Simone si ribella a questa condizione ed è proprio la sua vagina che prende la parola, è arrabbiata, furiosa, non tollera più questa sovrastruttura, queste regole non scritte, fortemente sessiste, questi soprusi.
Simone cede il passo a centomila (Piera Russo ), in un fluire di personaggi e canti, che denotano quanto la presenza dell’uomo incida sulla vita di una donna, come un marito possa chiedere di compiere scelte distruttive per la libertà e l’indipendenza della sua consorte, mentre lui costruisce un castello di sabbia, una gabbia dorata, a cui con forza lei dà un calcio, evadendo finalmente dalla galera.
Ciclicamente la rappresentazione torna all’uno, una donna (alias Martina Carpino ), una figlia che ha assistito alle continue violenze subite dalla madre, alle denunce, alla morte. Il dolore le trafigge il cuore, facendole perdere completamente fiducia in ciò che la circonda fino a spingerla ad andare per mare distruggendo le aspettative di vita.
Noi donne subiamo, accettiamo, logorate dalla consapevolezza di non avere una via d’uscita
Ci prodighiamo per i figli, per il compagno, per dare agli altri una vita serena, tralasciando completamente la nostra felicità, l’appagamento della condizione di essere umano donna, della nostra libertà; come mule da soma bastonate e violentate, private della scelta da schemi sociali malati, antiquati e degeneri, accettiamo la sofferenza, ci convinciamo di essere sbagliate, inutili, finendo così per subire un loop di aggressioni, comportamenti, reazioni e aspettative mancate, frutto di una perversione dilagante che stabilisce che ci sia chi è migliore, chi è più importante, chi è più bello, chi vale di più.
Così i nostri diritti restano scarabocchi scritti su una carta spiegazzata e nascosta nel cassetto della frustrazione. Finché le istituzioni non realizzeranno quanto gravoso e pericoloso sia per noi il loro completo abbandono, finchè noi donne non ci ribelleremo davvero a queste imposizioni familiari bigotte, verremo sfigurate dall’acido, picchiate, imprigionate, uccise non solo da chi materialmente agisce, ma dalla società tutta che finge di indignarsi, mentre noncurante, si volta di spalle.
Riecheggiano nella mia mente le parole di un brano di Lesley Gore del 1963:
you don’t own me, I’m not just one of your many toys, you don’t own me, don’t try to change me in any way, you don’t own me, don’t tie me down ’cause I’d never stay.
Non ti appartengo, non sono uno dei tuoi giocattoli, non ti appartengo, non cercare di cambiarmi in alcun modo, non ti appartengo, non puoi incatenarmi solo perchè potrei non restare.
Abbiamo visto
Uno, nessuna e centomila, a cura di Nadia Baldi, nell’ambito della Rassegna Racconti per Ricominciare.
Si ringrazia l’ufficio stampa
foto: PLKS/Vesuvioteatro