L’ottimismo può tornare. Oppure no?
Tutta l’ansia ora è per l’estate. Troppo tempo trascorso nelle limitazioni, nelle accortezze, nei divieti. Ora l’arrivo del calore, la vista del mare, delle colline verdi (non delle città d’arte) sta scatenando la voglia repressa del tempo libero. Gli abiti si sono fatti estivi, le gonne si sono accorciate, e così anche le magliette nelle più giovani, ben fasciate a evidenziare quel che passa il convento. Già molti giovanotti esibiscono gambe bianche e pelose che spuntano da pantaloncini: non tollerano più neppure una stoffa leggera.
In fondo, la Grande Paura è passata. I bollettini quotidiani ci dicono solo cose buone: meno di questo, meno di quello. E anche per i morti il senso di colpa va scemando: sono sempre meno. È tempo di pensare ai vivi. Verrà quello che verrà, ma intanto ognuno prova a ritrovare, a ripercorrere i vecchi sentieri. Ormai anche le mascherine hanno avviato una profonda trasformazione. Non devono più coprire naso e bocca. Coprono il mento, e qualche volta solo la gola, accentuando le orecchie a sventola a causa dei piccoli elastici che premono su quelle, dato l’allontanarsi della mascherina dalla posizione naturale. E le forze dell’ordine mostrano grande tolleranza. Specie nella gioventù: non se la sentono di infliggere pene pecuniarie severe che comunque ricadrebbero sui genitori, i quali magari fanno fatica a mettere il pranzo insieme alla cena.
L’assembramento è tornato a essere una condizione inevitabile, spontanea, allegra, vitale. Commiserata su tutti i piani, la giovane età cerca il riscatto dalle angherie della Dad, dei coprifuoco, dal divieto di stare insieme, dal blocco di tutti i luoghi di socializzazione, dalla impossibilità di mostrarsi, di esibirsi, dal sembrare quel che si vorrebbe essere.
la giovane età cerca il riscatto dalle angherie della Dad, dei coprifuoco, dal divieto di stare insieme
Oppure no? Molto spesso questa pandemia è stata paragonata a una guerra, sebbene il nemico sia invisibile, e di conseguenza, dopo la sperabile e probabile vittoria, ci immaginiamo anche un dopoguerra glorioso, come quello vissuto negli anni Cinquanta. Con tanto di piano Marshall sui generis. Ma non è così. Qui non c’è da ricostruire. Non ci sono macerie fisiche. Qui ci si chiede, in soli cinque anni, di diventare diversi, di cambiare mentalità, di avere rapporti diversi tra cittadini e pubblica amministrazione, tra Stato e criminalità dei colletti bianchi, tra imprese e lavoratori, tra progetto e realizzazione, tra ingiustizia e equità sociale, tra come siamo stati e come dovremmo essere.
Questo non è un dopoguerra, ma un dopocultura
Un tempo non lontano si diceva che gli italiani si affidavano allo Stellone. Sarebbe bello che questo metodo fosse tuttora affidabile e vincente.
Questo non è un dopoguerra, ma un dopocultura.
foto: Foto di Charlotte May da Pexels