Punto e virgola, una prefazione
Punto e virgola: perché?
Ogni comunità -a maggior ragione se si autodefinisce community– ha un suo gergo, un lessico familiare spesso difficilmente penetrabile dall’esterno. La community del “recovery” ne ha uno suo, e già il termine recovery potrebbe essere poco chiaro ai più, fatta salva qualche intuizione in merito.
La community del recovery è costituita perlopiù da account Instagram di ragazze e ragazzi accomunati dalla familiarità con disturbi alimentari di vario tipo. Dal sentirsi soli e isolati con il proprio malessere al sentirsi comunità coesa seppur variegata e piena di screzi (d’altronde la maggior parte dell’utenza si colloca nella fascia dell’adolescenza) cambia tutto, il social rende possibili dinamiche di ogni tipo: si acuisce il confronto ma prospera anche il mutuo aiuto o, almeno, il tentativo di attuarlo.
Il sottobosco della community è foltissimo e va da chi è seguito in strutture specializzate a chi non ha mai dichiarato la propria malattia a chi, ancora, si dice guarito e chissà se lo è davvero. Tante gradazioni, tante storie diverse alle spalle, un continuum che non parte e non continua da nessuna parte perché è impossibile anche soltanto tracciare una linea di avanzamento che sia uguale per tutti. Ciò che obiettivamente tiene insieme la community sono le storie.
Storie di ordinario DCA -anche qui, esplico per chi non ha praticità con il gergo: DCA sta per “disturbi del comportamento alimentare”, anche se ultimamente si usa piuttosto la dicitura DA, che sta per “disturbi alimentari”- che fluiscono nel web e spesso, sempre lì, finiscono per sparire dopo ventiquattro ore.
Storie che raramente arrivano ai media generalisti, che quasi mai si intersecano con organizzazioni di volontariato più strutturate attive su quegli stessi temi. Storie che vale la pena ascoltare, non fosse altro per familiarizzare con alcuni aspetti. Perché forse raccontare non serve a niente se non a far sì che sempre più persone abbiano coscienza di determinati temi.
“Punto e virgola, storie di disturbi alimentari” nasce da una call lanciata nel 2019 sui social dell’associazione Alice per i DCA. L’idea era raccogliere racconti e poi pubblicarli in cartaceo.
Nell’idea iniziale, a cui si è tentato di rimanere fedeli, non dovevano essere testimonianze ma rielaborazioni narrative: un processo attivo di confronto con il proprio vissuto.
La pandemia ha bloccato tutto, cambiato le dinamiche e il modo di fruire delle informazioni, per fortuna ha fatto sì che si parlasse di più del tema dei disturbi alimentari perché, stavolta purtroppo, i casi sono aumentati a dismisura e quelle presunte guarigioni spesso non si sono definite tali. Probabilmente servirebbe prendere in mano la penna e scrivere nuovamente ogni parola, tracciarla con una nuova consapevolezza di equilibrio precario non soltanto sul fronte alimentare ma in primis umano. Ma i racconti erano arrivati copiosi nella casella del concorso e non omaggiarli con la diffusione sarebbe stato un peccato.
C’è chi si costituisce in forma associativa e chi fa le dirette su Instagram e inventa hashtag. In entrambi i gruppi troviamo voglia di informare, sensibilizzare, ma anche una profonda richiesta di aiuto o, almeno, di mutuo supporto.
C’era chi parlava di sé, chi raccontava favole, chi creava finzione e chi romanzava episodi realmente vissuti. La narrazione è variegata nei contenuti e nello stile, così come nelle lenti che ogni autrice ha deciso di indossare, dando focus divers. Ci sono storie agrodolci e addirittura alcune che strappano un sorriso, ci sono episodi di cui raramente si parla, quando si affronta il tema, ed alcuni che se detti ad alta voce finirebbero per generare addirittura imbarazzo.
Comportamenti continuamente riportati fra i membri della community e quasi sempre taciuti al di fuori di essa. Il divario fra queste due dimensioni è fra le motivazioni che rendono urgente il bisogno di colmare la lacuna.
Da una parte, per raccontare al mondo un microcosmo spesso stigmatizzato. Dall’altra, perché è giusto che le autrici, indirettamente, vengano a contatto con un tessuto associativo strutturato fatto di persone più grandi, di altri parenti, di familiari di altre persone che lottano per il loro stesso obiettivo, ma in modo diverso.
Ma nello sviluppare questi pensieri l’entusiasmo della sottoscritta non era più l’unico in campo: si intersecava con quello delle autrici che, mentre il tempo si dilavata a causa della pandemia, scrivevano per avere notizie e aggiornamenti sul progetto.
C’è chi si costituisce in forma associativa e chi fa le dirette su Instagram e inventa hashtag. In entrambi i gruppi troviamo voglia di informare, sensibilizzare, ma anche una profonda richiesta di aiuto o, almeno, di mutuo supporto.
Prospettiva intergenerazionale? Forse. Rischio che narrare situazioni patologiche le cristallizzi? Forse.
Ma c’è anche un’opportunità, più difficile da carpire, ed è quella che, tramite la parola scritta, si raggiunga una catarsi. Dare forma, darsi forma. Narrare storie con un inizio e una fine per mettere ordine, creare senso e avere il coraggio di guardare in volto, a debita distanza, qualcosa che ci riguarda nel profondo. La sottoscritta crede profondamente in questo potere curativo della narrazione e quindi vede più opportunità che rischi nella scrittura. Spirito naif? Forse.
Ma nello sviluppare questi pensieri l’entusiasmo della sottoscritta non era più l’unico in campo: si intersecava con quello delle autrici che, mentre il tempo si dilavata a causa della pandemia, scrivevano per avere notizie e aggiornamenti sul progetto. Ho guidato io stessa alcune autrici a rivedere la loro narrazione, cambiare prospettiva, allontanarsi dai protagonisti per evitare un’adesione completa. Farlo senza sviluppare un vero e proprio corso di scrittura a distanza non è stato facile, farlo senza imporre una propria visione men che meno: dopo due, tre revisioni, arrivava il momento di tacere e lasciare che fossero le loro voci ad emergere. Per emergere, emergevano: Zoom di aggiornamento, botta e risposta su come promuovere l’iniziativa, con quali immagini corredare gli articoli.
La voglia di parlare c’era, e a parere di chi scrive non va mai messa a tacere. La mia persona -gloria e condanna della mia vita- era volta a mediare fra le loro parole e il mondo. Ero un ponte di storie, ed ho deciso di posare l’altro lato del mio arco su facciunsalto.it .
“Punto e virgola, storie di disturbi alimentari” è oggi su facciunsalto.it perché un libro sui disturbi alimentari lo compra soltanto chi quei disturbi li conosce, direttamente o indirettamente, mentre un articolo su un magazine generalista lo legge chiunque. E l’obiettivo è proprio questo.
Nessuna ambizione scientifica, ma massima fiducia nel potere catartico della scrittura. La voglia di riscatto. La speranza di una svolta. Punto e a capo o meglio: punto e virgola. Non a caso questo segno di interpunzione fa anch’esso parte del gergo della community.
Seguite le pubblicazioni di questa rubrica e condividete i post che seguiranno: facciamo di modo che di disturbi alimentari non si parli soltanto il 15 marzo (giornata del fiocchetto lilla) o il 2 giugno (giornata Internazionale per la lotta ai disturbi dell’alimentazione).
L’illustrazione dell’immagine riportata è di Lucrezia Mandracchia.