Le albe di Al (parte II)
Ecco, il momento è arrivato. Alla fine Al aveva deciso di incontrare lo strano personaggio del video. La curiosità aveva avuto la meglio sulla paura. La decisione era presa. Al, stella in rovina, si sarebbe presentato vestito a nozze e tirato a lucido all’appuntamento col frate, forse frate assassino. In caso, aveva già l’estrema unzione disponibile, visto il soggetto. Il suo sense of humour britannico…. lui era di Londra, in realtà, naturalizzato US da parecchio tempo, ma nato e cresciuto lì. E il DNA non si smentisce mai, pensava… Sei sempre il solito vecchio e arguto leone inglese in questo deserto cerebrale farcito di soldi e volgarità e qualunquismo come un tacchino. Da così tanti anni, ormai. Delle sue origini britanniche Al conservava molto anche nei lineamenti. Pelle diafana da vampiro, che un tempo aveva ospitato tante lentiggini, orecchie a sventola come il principe ereditario, occhi penetranti tra il blu e l’indaco, piuttosto rari e ipnotici, un lungo naso perfettamente a punta che gli era valso il soprannome dalla compagna ispanica, colibri. I membri della band lo prendevano in giro dicendo quanto fosse adatto per tirare coca, un naso così. Non avevano torto. Ed ora il momento è arrivato. Sono le 5, Al esce in vestaglia con la scorta canina al seguito, attraversa il boschetto di rose bianche, accendendosi una sigaretta per contrastare in qualche modo l’umidità. Il sole è ancora timido, ma si preannuncia bel tempo. Meglio, pensa lui, il sole mi mette di buonumore. Arrivato alla dèpendance spegne la sigaretta. Entra e si dirige verso un vecchio armadio ereditato dai nonni di Vicky. Talmente scuro, barocco e ingombrante da non trovare asilo tra i mobili moderni, chiari e “super techno” della villa. E’ sicurissimo che Vicky non ci abbia mai messo il naso; solo avvicinarsi a quel mausoleo le farebbe venire in mente troppi ricordi. Così, da anni, l’armadio è diventato il custode dei suoi cimeli personali, e all’occorrenza di un po’ di fumo o di qualche bottiglia di whiskey serio, non le sottomarche americane. Ma adesso c’è altro da tirare fuori. Un fantasma prigioniero di un bozzolo di cellophane, da cui traspare un azzurro scuro e violento. Al libera il fantasma dalla plastica; è in realtà un completo doppiopetto blu acceso, tonalità esatta del suo sguardo. Sotto si intravede una camicia di un rosa antico pallidissimo, stavolta uguale alla sua faccia sbarbata di fresco. E’ ancora un gran figo, Al. Malgrado la pancetta alcohol friendly, e i fili grigi tra i capelli scuri. Che portava di solito legati in un codino piratesco. Per l’occasione invece, il giorno prima li aveva tagliati molto corti ma col ciuffo, alla David Bowie. Al quale somiglia parecchio, così. Anche nella voce; profonda, sensuale, impeccabile. Già, impeccabile; tranne nella famosa sera di quindici anni fa. La sera del flop. Al si appoggia sul petto la giacca ancora sulla gruccia e si guarda nello specchio. Accenna un movimento da principe al ballo e si sente già ridicolo così. Ma aveva deciso, e lui non è tipo da ripensamenti. Bella, retriever bianca, annusa l’abito con dedizione, gli infila il muso tra le gambe, si fa convincere da una carezza ad andarsene buona sotto un mobile. Da lì assiste attonita alla cerimonia della vestizione. Ma prima Al mette un po’ di musica; non può stare più di una mezz’ora senza sentire musica; prende uno a caso tra i vinili della sua collezione sterminata,. E’ uscito Bob Marley, “Legend”. Great, pensa. In effetti quel disco ha la ritmica giusta per lo strip e la trasformazione. Alle prime note di “Is This Love” Al si toglie la vestaglia e i pantaloni del pigiama. Ha le gambe sottili, leggermente arcuate, e bianche e poco pelose. Non le ha amate mai, le sue gambe. Ma sono lunghe e duttili e nei pantaloni di cuoio dei concerti facevano la loro parte; erano come una strada liscia e senza curve che portava senza sforzi l’attenzione al cavallo attillato nel modo giusto, e lì Alan non lamentava carenze. Lo aveva sempre saputo, lui. Ogni frontman che si possa chiamare tale deve curare l’aspetto del pacco più ancora della voce e della faccia. Si sa chi è che compra i dischi e viene ai concerti, principalmente. Femmine infoiate di ogni genere ed età. E’ intelligente, Al, parecchio. Per questo non ha mai avuto bisogno di manager o assistenti, quando suonava. Ha fatto sempre tutto da sé. Si toglie anche la blusa del pigiama e il bianco abbacinante del suo torso lo infastidisce proprio. Ripensa alla pelle ambrata dei Victoria, morbida e profumata e insufficiente, a quanto pare. Dirige lo sguardo verso lo specchio e gli domanda, muto, cosa mai cercherà negli amplessi occasionali con le altre, ancora, visto che ha già un miracolo di donna accanto. Niente, credo, gli risponde la sua immagine. Forse con quelle donne copri il vuoto della sua assenza fino al ritorno a casa. O forse ,semplicemente sono un modo per accarezzarsi il cazzo in maniera originale. Sarà, ma devo smetterla, decide lui. E fa a sé stesso una promessa, se torna vivo da questo incontro Vicky non la tradisce più, non se lo merita. Dà un’occhiata alle braccia nude. Dagli avambracci in giù sono entrambe decorate da tatuaggi, speculari. le esatte figure a destra e a sinistra. Il verso principale della prima canzone di successo, i nomi dei suoi due gemelli intrecciati in un giogo artistico, la “V” di Vicky e ogni volta che la guarda sorride pensando che se mai si lasciassero dovrà trovarsi una con la stessa iniziale, la chitarra preferita e all’altezza del polso una meravigliosa ala di gufo aperta; stavolta solo a destra, la mano con cui suonava. La sua band aveva questo nome, “The Owls”, i gufi, perché non dormivano mai, lui e gli altri, e avevano tutti quegli occhi fissi e sgranati a causa delle sostanze di cui si facevano. Erano in quattro e si volevano bene. Ma anche i migliori amori finiscono, quando i soldi e l’ ego diventano troppo da gestire. Acqua passata, ormai, sospira Al. Si infila camicia e giacca, chiude il colletto con una cravatta rosso vinaccia, sottile. La sua grande fantasia la vede come un filo di sangue, ma poi si ripete che si sta suggestionando troppo…, In fondo non può essere così inquietante, la spiegazione. Non ricorda di avere nemici; i compagni del gruppo li aveva liquidati con una buonuscita più che generosa, era stato sempre attento a non mettere incinta nessuna, aveva sempre pagato i debiti … Deve essere così, una cosa semplice, di facile risoluzione. Al ha una mente molto logica e razionale, da informatico. Ed è anche un creativo, un artista. Un fantastico ossimoro vivente. Si ammira di nuovo: di “rock” gli è rimasto ben poco, sembra; il ciuffo sulla fronte e i cerchietti d’oro ad entrambi i lobi. Per completare l’opera tira fuori dalla tasca della giacca i gemelli, dono della madre di Vicky in occasione della nascita dei nipotini. Maria, la donna più dolce dell’universo. Lo aveva accolto come un altro figlio, lei ne aveva già cinque, e lo viziava coi regali e le specialità messicane. Maria non c’era più da qualche anno, ormai, e la sua morte lo aveva addolorato ancora più di quella dei suoi stessi genitori, attori di teatro piuttosto distratti ed egoisti. E poi lui, figlio unico, si era sentito subito accolto e coccolato dal calore latino di quella tribù. Avrò cura come si deve di tua figlia, Maria, promesso, mormora guardando i gemelli. Poi un ultimo sguardo allo specchio e si dice: “It’s time to grow up, boy”…
Il momento è arrivato. Al esce dal casotto vestito da damerino, con l’ansia di una debuttante. Con un trucco sfugge alle attenzioni di Bella per infilarsi in auto e la lascia a lamentarsi cercando di non torturarsi troppo. Il posto da raggiungere gli è chiaro, era nella canzone; neanche troppo lontano. Una radura verde a due isolati da casa. Si ferma ed esce, col suo passo di freccia alata. Il sole intanto ha ripreso il suo viaggio. Come Al si avvicina a piedi alla mèta gli regala una carezza sulla testa morbida, gioca con l’oro delle orecchie e accende gli occhi di un blu incandescente. Rimangono i problemi di vista, però, e mentre si avvicina Al cerca di mettere a fuoco come può. E lo vede, un frate col viso in ombra dal cappuccio, il saio grigio-ocra che gli ricorda, curioso, un gufo. Ma non è solo, il frate. Comincia a materializzarsi al suo fianco una piccola folla di gente che conosce bene, fin troppo. Due bambini identici e vivaci, due dei loro zii, Josè e Margarita, il suo migliore amico con la biondissima moglie. E infine una ragazza alta, scalza, vestita di rosso. Capelli sulle spalle pieni di fiori colorati, il sorriso di un angelo, Vicky. Al si ferma di colpo, come pietrificato. Non riesce a parlare, ad emettere suono. La ragazza scalza gli si avvicina, alta perfetta e terribile come una dea. Gli prende una mano e lascia scivolare un biglietto, scritto a caratteri cubitali: “MI CI E’ VOLUTA UN BEL PO’ DI FATICA PER ARRIVARE A TE, AMORE MIO. E ASSECONDANDO IL TUO ANIMO BIZZARRO METTERE IN PIEDI QUESTA MESSINSCENA. SEMPLICEMENTE PER FARTI CAPIRE QUELLO CHE GIA’ SAI. CIO’ DI CUI TI INFORMO ADESSO INVECE E’ IL FATTO CHE HO SEMPRE SAPUTO COME SEI E QUELLO CHE FAI. E NON HO SMESSO UN ATTIMO DI AMARTI E DI VOLERTI ACCANTO. ADESSO, E SOTTOLINEO ADESSO, DAVANTI A UN PRETE E A QUELLI CHE AMI DI PIU’ TI STO CHIEDENDO UN SI’ O UN NO. E CON L’OCCASIONE TI INFORMO CHE ASPETTO UNA BAMBINA.” Passano cinque minuti eterni, poi Al sente sé stesso parlare: “Maria, dovrebbe chiamarsi così”.