Pericle coda storta e bastardo – VI – Il crepuscolo degli dei
Della madre Pericle non serbava alcun ricordo. Così vanno le cose tra gatti: le madri allevano e quando reputano che il loro servizio è finito, abbandonano. I figli allora se ne stanno lì un po’ spaesati, infine prendono la loro via e dimenticano facce, odori, emozioni. Ciò che Pericle non avrebbe invece mai dimenticato era il gatto grigio. Tanto era il terrore che quel gatto gli aveva incusso nella fase iniziale della sua vita, tanto era l’orgoglio per poter ora camminare al suo fianco. Non era l’unico gatto con cui Pericle amava trascorrere tempo. Briseide, ad esempio, la gatta con cui affinità elettive e passionali si alternavano a seconda dei periodi di calore o di pace dei sensi. Leonida, gatto sfrontato, coraggioso al limite della stupidità. Un orecchio mozzato, un occhio miracolato, altre cicatrici coperte da un pelo che partendo dal bianco si faceva ruggine qua e sporco di là. Le prendeva quasi sempre e non si tirava mai indietro. Dal grigio le aveva prese una volta solamente. Poi i due avevano accettato i rispettivi ruoli e a posto così. Fondamentalmente Pericle andava d’accordo un po’ con tutti. Coloro che non sopportava semplicemente non li considerava.
Tuttavia c’è un momento della vita in cui ci si rende conto che il padre, biologico o putativo che sia, è un essere fallibile. Sbaglia. Cede. E in definitiva perde. E se una buona dose di affetto mista a riconoscenza può negare l’evidenza delle cose, ben più difficile da mascherare agli occhi è l’età che avanza, il decadimento fisico, il crepuscolo degli dei. Successe un pomeriggio di luglio. A quel tempo Pericle aveva l’abitudine di trascorrere i pranzi domenicali nell’aia di una casa dove l’aveva introdotto Briseide. Talvolta anche Leonida si univa al gruppo felino. La donna di casa era un’energica signora di mezz’età dalle bionde permanenti e i solidi fianchi, sempre indaffarata in qualche faccenda. Aveva una parola per tutti, gatti, cani o cristiani che fossero e non scendeva in particolari con nessuno. Donna avvezza a lavare bicchieri e spazzare cucine, si fermava alla superficie delle cose quanto a quella delle persona. Poche parole, un sorriso di circostanza, strofinaccio in mano e avanti il prossimo. Non diversamente considerava il marito, tale Paride, e forse per questo l’unione reggeva da anni senza particolari tempeste. Paride era un uomo dal giudizio facile, la barba ispida e la camicia celeste pezzata di sudore sulla schiena. Aveva avuto due figli e quattro raccomandazioni: una per sé per un lavoro in comune, due per i figli per Poste e Ferrovia, una per la moglie per una pensione con contributi da coltivatore diretto senza particolari conoscenze agronomiche. E nonostante, o forse a ragione di questo, la vita gli avesse offerto tutto questo immeritato ben di Dio, la maggior preoccupazione di Paride erano i problemi del prossimo. Non certo con la lodevole intenzione di alleviare o risolvere, piuttosto appesantire e rendere oltremodo di dominio pubblico. Passava le domeniche d’estate seduto nell’aia di fronte casa sotto un pergolato di vite a bere vino e conversare con i paesani che facevano visita. Costoro gli portavano le storie fresche di questo e quell’altro e quell’altra ancora e Paride, come un novello Salomone, dal suo scranno di plastica bianca giudicava e a ognun donava un’infida parola. Il pergolato era fresco e la moglie di Paride assai prodiga di avanzi di cibo e sorrisi. Questo il motivo per cui ai gatti piaceva trascorrere qui la domenica pomeriggio.
– Che uomo è questo che si fa incornare da sua moglie a questa maniera? Mezzo uomo da niente – stava dicendo quel pomeriggio di luglio a un compaesano il quale gli aveva raccontato una storia di corna che la parrucchiera della cugina di sua moglie aveva raccontato a un tizio di cui non conosceva il nome che a sua volta lo aveva riferito a sua cognata. Per Paride le storie di corna erano le più succulente – Che poi sua moglie la vedi che faccia tiene. Dai, non mi dire che una così non si capisce subito di che pasta è fatta – continuò e si portò un bicchiere di vino aspro alla bocca. Corrucciò le labbra.
– Questo è vero Paride – rispose l’altro uomo, che tuttavia aveva già perso interesse nel discorso e prestato l’orecchio a una lite tra gatti le cui strida erano giunte fin sotto il pergolato.
– Guarda, se io avessi avuto anche solo il sentore che mia moglie mi potesse cornificare l’avrei già presa a calci in culo come si conviene a un maschio con la M maiuscola – continuò Paride. L’altro uomo cercò la figura della donna nella penombra della cucina adiacente l’aia e il pergolato. Pensò a una vecchia storia che la riguardava e annuì incerto con la testa.
Paride parve intuire il pensiero dell’uomo e si sentì in dovere di difendere la propria virilità. Fece cenno all’ospite di avvicinarsi con la testa, si voltò per controllare cosa facesse la moglie in cucina e quindi si avvicinò anch’esso e a voce bassa disse – Che poi, intendiamoci, la stessa cosa non potrebbe dire lei di me – e fece l’occhiolino, quindi appoggiò la schiena alla sedia di plastica bianca, stirò le braccia al cielo, sbadigliò e in un impeto di euforia per la ristabilita virilità gridò – Amore, dai, portaci la bottiglia in frigo, ormai è fredda.
Fu quando la moglie uscì dalla cucina con la bottiglia in mano e il solito sorriso in volto che la lite felina che l’ospite aveva intuito poco prima si trasformò in battaglia campale.
– Ma che è sta roba? Dove sono coda storta e quegli altri bastardi? – chiese Paride e si voltò per controllare se fossero ancora presenti i tre gatti. Tutti erano dove li aveva lasciati l’ultima volta che li aveva degnati di nota. Il frastuono aveva destato le loro teste e intirizzito il loro pelo. Paride si alzò e percorse l’aia fino alla strada per capire cosa stesse succedendo. L’ospite e i tre gatti lo seguirono, la moglie appoggiò la bottiglia al tavolino e disse – Son gatti. – Sorrise e rientrò in casa con i suoi fianchi solidi e la permanente in ordine.
Oltre la strada, nel giardino di una casa da tempo disabitata e in procinto di decadere, la scena era questa: il gatto grigio stava appiccicato al muro perimetrale e Filippo, un giovane e vigoroso gatto nero così chiamato perché il padrone all’anagrafe faceva, appunto, Filippo, inalberato come una pantera lo colpiva ripetutamente con entrambe le zampe anteriori. Era una gragnuola di colpi dalla quale il grigio poteva solamente ripararsi e sperare finisse alla svelta. Così per sua fortuna fu. Filippo se ne andò grintoso, altezzoso, vincente. Tutti gli astanti erano attoniti. Mai avrebbero creduto che il grigio potesse perdere un match. Pericle osservò il gatto. Forse la sua mente ritornò a quel pomeriggio alla capanna sul fiume. Le cose non erano andate diversamente. Si sedette con la parte posteriore del corpo e guardò il cielo. Le nuvole erano in arrivo. Presto sarebbe arrivato un temporale.
Il grigio non era oramai il gatto più forte, imbattibile, fiero del paese. Il suo declino fu preannunciato agli uomini da Paride, il quale non lesinò infauste previsioni sul futuro del gatto. Così ora quando il grigio passava per strada tutti erano a dire che era stato un gran gatto, ma ormai era vecchio e decrepito e quanta tristezza a vedere il crepuscolo di un grande eroe. Per quanto riguarda la comunità felina non ci fu bisogno di un Paride a raccontare alcunché. Le cose furono chiare fin da subito e praticamente tutti voltarono le spalle al grigio, che oramai non incuteva più timore, per volgersi a Filippo.
Pericle no. La perdita della leadership contribuì al repentino decadimento del gatto e tuttavia Pericle non lo abbandonò mai. Con il passare del tempo era oramai abitudine vedere Pericle davanti e il grigio dietro a seguire. Tutto ciò che nella coppia era stato compito del grigio ora era affar suo. Da allievo Pericle si era fatto maestro e forse anche un po’ badante. Degli altri gatti solamente Leonida a volte si accompagnava a loro. Lo faceva perché Filippo non gli andava mica a genio e poi in generale a parte il grigio e Pericle non erano tanti i gatti che sopportavano Leonida.
Una sera di settembre, che l’aria si era rinfrescata e i gilet erano sulle spalle di uomini e donne, all’ora in cui il sole si spegne stanco in un crepuscolo di campanili e tetti giallo ocra, i tre gatti stavano nella via dove abitava il Prof. L’uomo gli aveva lasciato un lauto pasto nelle ciotole e i felini ciondolavano sazi in mezzo al borgo. Fu Leonida il primo ad accorgersi della presenza di Dario sull’uscio di casa. Se ne era stato lì per tutto il tempo del loro pasto. L’uomo, il tiranno Dario che mai aveva dimenticato l’affronto di Pericle e del grigio, da tempo ponderava la sua vendetta. Leonida soffiò in direzione dell’uomo. Questi rise, quindi rientrò in casa. Ma la figura che si affacciò pochi attimi dopo dalla porta non era più la sua, bensì quella del cane Serse. I denti aguzzi, gli occhi rossi e i muscoli tesi. Libero e ringhiante. Ne seguì un inseguimento per vie, vicoli, giardini, strade. I continui cambi di direzione dei felini non permettevano al cane di acquisire velocità. Pericle era davanti e disegnava le traiettorie sfiorando i muri e accarezzando l’asfalto con le zampe. Leonida lo seguiva a distanza di qualche metro. Più attardato il grigio, che tuttavia rimaneva a distanza di sicurezza da Serse. Arrivarono sulla strada principale e più trafficata del paese. Oltre la strada c’era un recinto attraverso il quale un gatto sarebbe potuto passare, un cane no. Pericle vide un’auto rossa sopraggiungere dalla sua destra. Decise di attraversare. La macchina lo sfiorò solamente e si mise in salvo. Dopo l’auto rossa passò Leonida. E anch’esso fu salvo. Poi ci fu un gran stridore di freni e un colpo leggero, come se qualcuno avesse calciato un pallone. Pericle si voltò. Leonida era accanto a lui. Vide Serse fermo dall’altra parte della strada con la bocca spalancata e la lingua a penzoloni. Nella strada un’auto verde riprendeva velocità dopo la brusca frenata. Ciò che non potè vedere fu il gatto grigio. Non l’avrebbe visto mai più. Il sole sparì dietro le montagne e fu la tenebra su tutto il paese.
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