Il Giro dell’Italia del ‘909
Ora che sono molto vecchio e anche un po’ stanchino e guardo alla televisione le biciclette lucide e leggere dei girini di quest’anno, mi torna in mente quando partecipai, resistente e agile, alla gara che si tenne nell’anno del Signore del 1909, il primo Giro dell’Italia in bicicletta. Tempi di eroi scolpiti nella roccia e di fame nera e di povera gente con forza senza eguali, e di facoltosi gentlemen con la paglietta in testa e la canna di bambù sempre agitata,
ma anche di ladri che nei sottoscala bui preparavano audaci furti di famosi quadri dai musei.
La mia era una squadra forte se avevamo da mangiare e molto scarsa quando il cibo dovevamo procurarcelo arraffando nei pollai quel che si poteva prendere. Roba da rischiare di venire eliminati per le ore di ritardo accumulate, ma allungando qualche uovo o un fiasco di vino alla giuria riuscivamo sempre poi a rientrare nei tempi gusti sul tabellone dei partecipanti.
Non c’era ancora per fortuna questa cosa della televisione che ti viene a intervistare pure mentre sei seduto al cesso, o la pretesa assurda di dover partire tutti assieme: niente affatto, non era così!
Il tredici di maggio alle due e cinquantatré passata mezzanotte siamo partiti da Milano, e questo già bastò; il resto funzionava poi in questa maniera: che prima arrivavi e meglio era per te.
Se al Rondò di Loreto si era in centoventisette alla partenza, nelle tappe poi ogni squadra si sceglieva il migliore orario per partire; c’è chi lo faceva alla chetichella, così mentre si era tutti a cena nello stesso capannone dove si tentava di dormire abbracciati alla propria bicicletta per paura che te la rubassero… come i cowboy coi cavalli nella prateria… che poi cena tanto per dire, una baghetta col salame era già gran cosa, se poi girava del lambrusco ci sembrava capodanno… mentre si cenava, stavo raccontando, poteva esserci una squadra che partiva all’improvviso, e così qualche capitano ordinava agli altri di spicciarsi e di montare in sella, che il pane si poteva anche mangiare nell’inseguimento, altrimenti quelli lì chissà che scorciatoia si sarebbero inventata per arrivare primi.
Anche noi avevamo in serbo un trucco per cercare di vincere la corsa: prima della partenza gli organizzatori ci avevano fotografati, così poi da riconoscere quelli (pochi, meno di cinquanta i sopravvissuti a fine Giro) che fossero arrivati al traguardo finale. Ma noi in squadra avevamo due gemelli, i fratelli Vivirito, con iscritto il solo Nunzio e con Mariuccio che aspettava nascosto dietro il Colosseo, con la stessa maglia del fratello già indossata, per prendere il suo posto riposato e fresco a metà Giro.
Ma la cosa non funzionò per colpa di Nunzio, che a Chieti si incapricciò di una vedova coi soldi e si accasò e Mariuccio non è che poteva farlo rispuntare nella capitale come se niente fosse! Così si fermò anche lui, e per vent’anni fece il centurione, e prendendosi anche le sue brave soddisfazioni: rammento che non volle soldi quando per il mio viaggio di nozze si mise in posa, davanti al monumento, tra me e mia moglie.
Ma non è che gli altri furono da meno: il Gallera, capitano della squadra biancorossa della Furia, in ritardissimo in classifica, salì sul treno con tutta la bicicletta e si fece più di duecento chilometri spaparanzato sui sedili; ma a Firenze il capostazione lo fece arrestare perché non aveva pagato il biglietto.
Anch’io mi arrangiai come potevo, e non mi feci mai scoprire, ma nonostante i trucchi arrivai soltanto quarantottesimo, beffando sul traguardo un certo Gigi Runzolo, l’ultimo in assoluto, perché gli bucai la ruota mentre lui, dietro un albero, faceva i suoi bisogni. Mai lasciare sola la bicicletta, con tanti farabutti in giro.
N.B.: La corsa, quella vera, venne vinta dall’italiano Luigi Ganna che guadagnò 5.325 lire. Tra le poche cose vere raccontate qui ci sono luogo, data e orario di partenza del primo Giro d’Italia; è anche vero che alla partenza tutti i corridori vennero fotografati per evitare intrallazzi all’arrivo ed è parimenti vero che un corridore, un certo Camillo Carcano, venne squalificato per aver fatto duecento quaranta chilometri a bordo di un treno, da Civita Castellana a Pontassieve, naturalmente con la bicicletta accanto.
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